Per un dialogo interreligioso che possa contribuire alla causa della pace

Medio Oriente: di fronte a una grande tragedia, serve un salto di qualità nella ricerca del confronto, per puntare alla sicurezza di entrambi i popoli

 

Dal 7 ottobre del 2023 il dialogo tra ebrei e cristiani si è fatto più difficile. Come era inevitabile, nell’agenda di un confronto teologico, storico e spirituale hanno fatto irruzione eventi militari che hanno avuto diverse interpretazioni, suscitando una polarizzazione che ha ridotto e talora azzerato le pratiche dialogiche.

Nei giorni scorsi la presidente dell’Unione della Comunità ebraiche (Ucei), Noemi Di Segni, è intervenuta su questi temi con un lungo articolo apparso sul portale dell’Ucei, Moked, con toni e argomenti che ci hanno interrogato e sui quali ci sembra utile intervenire. Da qui una lettera aperta già pubblicata sull’Agenzia Stampa Nev – Notizie Evangeliche, che sarà ripresa da altre testate.

 

Di fronte a questa ennesima tragedia della storia è giusto, come la presidente Di Segni ammonisce, evitare «l’uso irresponsabile di termini come genocidio, apartheid, che hanno significati precisi nella storia». Ma il rifiuto di utilizzare il termine “genocidio” non sottrae il governo di Israele e chi lo sostiene dalla responsabilità di condurre un’azione militare che, per esplicita affermazione di alcuni suoi ministri, potrebbe concludersi solo con la deportazione dei palestinesi di Gaza. Come definire tutto questo? E soprattutto, che fare?

In primis, occorre rimarcare l’assoluta urgenza degli appelli al governo di Israele perché fermi le azioni militari contro la popolazione civile e tratti con convinzione e determinazione con Hamas per il rilascio degli ostaggi ancora prigionieri: in quest’ordine, che non è dettato dalla morale ma dalla logica che caratterizza questa fase del conflitto.

 

La presidente Di Segni afferma che le comunità ebraiche nel mondo vivono sotto minaccia, sconvolte da un’ondata di antisemitismo e odio razziale che non si palesava dai tempi della Shoah. Nell’aderire al suo giudizio, crediamo non si possa però può ignorare che negli stessi giorni circolano non minori parole d’odio nei confronti dei palestinesi, così come dei musulmani, e si diffonde una virulenta islamofobia che associa l’islam – tutto l’islam e tutti i musulmani – al terrorismo, alla violenza contro le donne, all’antisemitismo e a quant’altro nega i diritti umani e i principi fondamentali della convivenza democratica. Tutto questo accade anche in Israele, che rivendica il ruolo di unica democrazia del Medio Oriente ma che tollera, e talora nelle parole dei suoi massimi leader politici enfatizza, propositi di deportazioni e distruzioni di massa del popolo palestinese.

Denunciare l’antisemitismo senza accostarvi un giudizio altrettanto severo contro l’islamofobia e le parole di odio antipalestinese e razzista che si odono in Israele come nel resto del mondo rischia di essere un atteggiamento sbilanciato che finisce per alimentare altro odio e altra violenza.

 

Ragionando ancora sul da farsi, la presidente delle comunità ebraiche ritiene che «forme di boicottaggio, disconoscimento, interruzioni di accordi storici e demonizzazione di Israele generano solo odio dilagante». Il rischio è evidente e condivisibile, ma considerazioni analoghe, però, si devono fare per i palestinesi, riconoscendo che le punizioni collettive, gli arresti preventivi e il sostanziale blocco degli aiuti alimentari attuato dal governo di Israele meritano un giudizio altrettanto netto e severo.

Come sottolinea l’articolo di Moked, «l’incitamento alla violenza è lontano da ogni morale ebraica» ma purtroppo, come spesso accade anche per i cristiani, nobili formulazioni teologiche sono contraddette da prassi e azioni che vanno in direzione esattamente opposta. D’altra parte si esprime la preoccupazione per la scelta «di difendere solo un popolo – quello palestinese – e non anche quello israeliano». A questo riguardo però, vogliamo sottolineare che nel dibattito pubblico nazionale emergono posizioni diverse che si concretizzano, a esempio, nell’impegno di molti – a esempio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – che con il progetto «Fermiamo l’odio, aiutiamo i costruttori di pace» ha scelto e praticato la strada del sostegno alle forze del dialogo e della convivenza che si muovono all’interno sia della società israeliana sia di quella palestinese,

 

In un dialogo tra cristiani ed ebrei che oggi non può escludere i temi politici del conflitto, dobbiamo capire se esso può contribuire al rilancio di un percorso di pace che, come afferma la stessa presidente Di Segni, non può prescindere dalla prospettiva della giustizia e della pace per due popoli, della sicurezza per lo Stato di Israele e per l’erigendo stato palestinese, e della difesa per i diritti umani, ovunque vengano negati e vilipesi. Può essere questo il terreno sul quale aprire una nuova stagione di dialogo? Per dirla con David Grossman: «Abbiamo il dovere di dare ai bambini strumenti per superare la paralisi che noi stiamo vivendo. L’odio ha tanti agenti: più la guerra va avanti più crescono. In una situazione così brutta, sperare è un atto di protesta. Non possiamo lasciare la realtà nelle mani dei codardi, di chi odia o di chi assiste passivamente a quello che succede».