“Osare oltre l’ordinarietà”

Un argomento centrale nella Conferenza del II distretto delle chiese valdesi e metodiste è stato affrontato da uno dei gruppi di lavoro

 

«Osare oltre l’ordinarietà». Voglio iniziare questo breve resoconto sul lavoro di uno dei gruppi, che si è formato durante la Conferenza del II Distretto, partendo da questa affermazione che, dopo averla ascoltata o letta, potremmo dire che sia scontata, ma, riconosciamolo, non lo è. Sollecitati e sollecitate da una traccia di ordine del giorno propostoci dai relatori (la pastora Giovanna Vernarecci e il pastore Marco Di Pasquale), abbiamo cominciato a sondare quelle che continuano a essere le criticità emerse sia durante il periodo del Covid sia dopo. Ci siamo resi conto di subire ancora le conseguenze di quei lunghi mesi di isolamento forzato.

 

Purtroppo, le soluzioni trovate per compensare la mancanza di possibilità d’incontro, se da un lato si sono rivelate positive per la capacità di abbattere le distanze, nello stesso tempo hanno creato anche un effetto negativo che si sta trascinando ancora oggi: siamo diventati pigri nel riavviare i diversi ambiti della vita comunitaria. Certo, non dobbiamo generalizzare. Non è detto che ciò che scrivo valga per tutte le comunità, ma se una esigenza è emersa dalla discussione, durante il lavoro del gruppo che ha affrontato il tema della “vita delle chiese”, è quella di riscoprire l’importanza dell’accoglienza reciproca. Tornare a essere una chiesa che sia in grado di attuare un’accoglienza a 360° non solo aprendo le nostre porte per consentire ad altri, altre, di incontrarci e condividere con noi progetti, sogni, delusioni, vittorie e sconfitte. Accogliere ed essere accolti mettendoci in gioco, guardando anche a nuove forme di “connessioni”, nuovi modi per manifestare la nostra fede.

 

Oggi molte comunità sono costituite da fratelli e sorelle che hanno origini ecclesiologiche diverse. Chiese con una tradizione sinodale condividono non solo gli spazi dei luoghi di culto, ma anche le varie attività, con fratelli e sorelle che giungono tra noi provenendo da tradizioni congregazionaliste. Questo “dono”, se da un lato ci arricchisce perché porta tra noi una ventata di innovazione e una visione un po’ più spirituale del nostro essere chiesa, dall’altro ci costringe a fare i conti con un diverso modo di approcciarsi alle tematiche che, in questi mesi in modo particolare, ci costringono a prendere delle decisioni e delle posizioni che siano chiare e quanto più condivise.

 

Ecco che l’esortazione a “osare oltre l’ordinarietà” non è più semplicemente uno slogan, una frase scontata, ma diventa l’esigenza del nostro essere Chiesa di Cristo, chiamata a non adagiarsi, a non adeguarsi ai tempi. Riscoprirci una chiesa che non si accontenta di conservare il talento affidatoci semplicemente nascondendolo, ma una chiesa che sa decidere di rischiare e uscire fuori dall’ordinario.

 

Alcuni interventi, in chiusura della discussione, ci hanno costretti a riconoscere un altro grave problema che evidenzia una errata visione del tema che abbiamo affrontato. Può sembrare un dettaglio da poco, ma una sola consonante che cambia, trasforma il nostro essere e il nostro agire. Ci è stato, giustamente, fatto notare come l’argomento posto in discussione sia stato modificato nei nostri interventi. Dovevamo parlare della “vita della Chiesa”, e abbiamo parlato, per lo più, della “vita nella Chiesa”. Pensate che sia una differenza da poco? Non penso. Siamo Chiesa di Cristo non solo all’interno dei nostri templi, non solo quando guardiamo con un certo “compiacimento” a ciò che possiamo aver compiuto al nostro interno. Siamo Chiesa di Cristo quando accogliamo la spinta innovatrice dello Spirito Santo che ci porta fuori per creare e vivere nuove e vive “connessioni”.

 

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