
Immigrati, ombre delle nostre paure
La chiusura all’integrazione è anomala per gli Usa, meno nei Paesi sovranisti; è un’ amara realtà in casa nostra, come dimostrato dai tanti “no” al referendum in materia
L’Amministrazione Trump esibisce come un trofeo le immagini di migliaia di migranti “clandestini” in catene che vengono deportati verso Guantanamo, l’antica base militare figlia della guerra fredda e della lotta al comunismo, ora convertita in centro di detenzione per stranieri. “Illegal aliens” li definisce la Casa Bianca, ma fino al giorno prima erano lavoratrici e lavoratori agricoli, camerieri, addette alle pulizie e “badanti” che svolgevano onestamente i loro compiti cercando di vivere dignitosamente e di assicurare un futuro migliore ai propri figli. Come noto, le proteste seguite all’ordine esecutivo degli arresti e della deportazione hanno suscitato, soprattutto in California, la protesta dei parenti, delle associazioni per i diritti umani e delle chiese. Alcune di queste, riprendendo una vecchia tradizione che risale ai tempi dello schiavismo, si sono dichiarate “santuario” e hanno deciso di accogliere e proteggere alcuni dei migranti sottoposti alla procedura di deportazione.
La reazione della Casa Bianca è in perfetto stile trumpiano: decisioni muscolari come quella di inviare la Guardia nazionale in California e una martellante campagna di pura propaganda contro la naturale criminalità degli immigrati. Senza distinguere tra chi lavora e chi no, negando lo sforzo di integrazione compiuto da intere famiglie e persino ignorando gli interessi dell’economia locale che, dichiaratamente, ha bisogno della manodopera degli immigrati. Al fondo, quindi, le misure adottate dalla Casa Bianca vanno contro gli interessi nazionali eppure, nonostante le proteste e le mobilitazioni, a oggi rassicurano un’opinione pubblica spaventata e impaurita che vede nell’immigrazione un pericolo e una minaccia per il presente dell’America. A dispetto di quello che l’America è stata ed è: una nazione di “immigrati”, cresciuta proprio grazie al lavoro, allo studio e alla lealtà di milioni di irlandesi, scozzesi, italiani, tedeschi e, più recentemente, latinoamericani, indiani, africani. Quel Paese che all’inizio del XX secolo apponeva una solenne targa ai piedi della Statua della Libertà che si stagliava di fronte ai migranti in arrivo a New York: «Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite desiderose di respirare liberi, i miserabili delle vostre coste affollate».
Erano parole di una donna, Emma Lazarus, tante volte risuonate nella narrazione di un Paese naturalmente destinato a crescere proprio grazie alla pluralità delle culture, delle religioni, delle tradizioni che lo hanno plasmato. Ancora oggi, almeno formalmente, «E pluribus unum» è il motto nazionale di un Paese nato e cresciuto coltivando la memoria delle diversità che lo attraversano ma che oggi rinnega sé stesso e la sua storia. Quella di Trump e dei milioni di americani che lo sostengono è un’America bianca, cristiana, che guarda con disprezzo a chi non riesce a salire sul treno della ricchezza, spietata nelle sue ambizioni economiche e politiche. La durezza delle politiche adottate in questi anni ci dà la misura del cambiamento profondo dell’anima di questo Paese, amato e rispettato proprio per le sue libertà, per le lotte per i diritti civili che hanno segnato la sua storia, per la sua capacità di integrare e offrire un’opportunità anche a chi era più svantaggiato. Un’altra America.
In Europa le cose non vanno troppo diversamente. Che il tema dei migranti metta a dura prova la qualità delle nostre democrazie si vede nell’involuzione delle norme europee e, per limitarci al nostro piccolo recinto nazionale, nelle sciagurate politiche del Governo che per certi aspetti ha anticipato il “modello Guantanamo”, ideando i centri per migranti in Albania. Il paradosso è lo stesso: di fronte alle parole accorate del Governatore della Banca d’Italia, che dichiara che l’Italia ha bisogno di immigrati regolari per far crescere la propria economia, il Governo fa spallucce e adotta politiche che invece che favorire integrazione e inclusione sociale, precarizzano i migranti, in più di qualche caso condannandoli a una irregolarità permanente e perfino strutturale. Difficile trovare la logica economica di questa strategia. Più facile coglierne il senso politico che risponde alle accresciute paure di ceti sociali impoveriti, che hanno un’alta percezione della propria insicurezza e guardano con angoscia al futuro dei propri figli. Attribuire la colpa di questa ansia sociale agli immigrati è stato il capolavoro comunicativo delle destre nazionaliste e sovraniste, che sono riuscite a costruire un “capro espiatorio” sul quale scaricare la colpa di una crisi che ha cause ben più complesse delle microconflittualità connesse con le migrazioni.
Ma purtroppo c’è di più, ed è la pillola più amara. Queste paure e queste reazioni xenofobe ormai sono penetrate anche in altri fronti sociali e politici, diversi da quello delle destre radicali. Lo ha dimostrato, in Italia, l’esito del quinto referendum appena bocciato dagli elettori che, in maggioranza, hanno assecondato l’indicazione governativa di non recarsi alle urne. Come si è visto, il “sì” al quesito che proponeva di abbassare a cinque anni il periodo di attesa per presentare la richiesta di cittadinanza, ha fatto registrare circa il 20% di voti in meno di quelli raccolti a favore degli altri quesiti. In parole povere e semplici: anche il popolo di sinistra, che ha scelto di votare, sul tema dei migranti mantiene un atteggiamento se non diffidente, quanto meno prudente. A nulla sono valsi i ragionamenti tecnici sul fatto che per fare domanda di cittadinanza – il meccanismo non è meccanico! – permanevano stringenti criteri e che nessuno l’avrebbe ottenuta in meno di otto anni. L’ombra del migrante che delinque, “ruba” il lavoro ai nostri figli e minaccia le nostre figlie si stende anche su chi è pronto a difendere i diritti dei lavoratori e la loro sicurezza.
Non è razzismo, è paura. Ma anche la paura può essere pessima consigliera e minare, oltre che le democrazie, anche le nostre coscienze e la nostra coerenza etica.