Cittadinanza. Grazie, ma no grazie

Il 35% degli elettori al referendum ha votato «no» al quesito numero cinque che prevedeva il dimezzamento da dieci a cinque anni di residenza legale per acquisire la cittadinanza italiana

 

Grazie, ma no grazie. Non è il titolo della canzone di Willy Peyote, ma il chiaro indirizzo di voto del referendum numero 5, quello sulla cittadinanza. Premesso che il cantante torinese probabilmente non sarebbe contento d’essere accostato a un quesito referendario, il titolo della sua canzone invece ben si adatta all’esito del voto del 9 giugno.

 

Cittadinanza? Grazie, ma no grazie! È difficile fare una riflessione adeguata sulla scelta espressa; difficile perché la nostra politica avrebbe potuto in più occasioni migliorare una legge ormai ferma al 1992. L’8-9 giugno, tra i 14 milioni di elettori che hanno raggiunto le urne – non poche persone, malgrado gli inviti a non farlo, se pensiamo all’affluenza delle ultime elezioni politiche –, ha apposto la crocetta sulla possibilità di dire “no” alla riduzione dei termini per l’ottenimento della cittadinanza: un segnale politico, certamente sociale. E rivolto ai vicini di casa, ossia alle tante persone da tempo residenti nel nostro paese e in attesa di dignità giuridica.

 

Una cittadinanza necessaria per poter contribuire con pari dignità alla vita della polis, all’ottenimento dei diritti ma anche all’adempimento dei doveri, come quello di pagare le tasse con quel rimanente 40% degli italiani che ancora le paga (il 60% non lo fa: non è un errore, sono i dati vergognosi emersi recentemente). Un’attesa, quella della cittadinanza, per molti lunga e complessa, tanto più in un paese dove dieci anni burocratici spesso equivalgono al doppio. Per questo, la scelta deve interrogare soprattutto quella parte di elettori che sino a ieri si sentivano spalleggiati da un’area politica che si credeva quella di riferimento e che oggi scricchiola.

 

Questa modifica referendaria aveva un sapore simbolico molto forte. Questo può essere stato il suo limite? Non a caso, anche l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), pur ammettendo che il referendum non avrebbe cambiato l’approccio alla cittadinanza caratterizzato dalla legge del 1992, perché anche nel caso del quorum e di una vittoria dei sì, la modifica «avrebbe comunque permesso un’amplissima discrezionalità al Ministero dell’Interno sulla base di criteri da esso definiti e non dal legislatore, come invece impone la Costituzione (art. 10, co. 2 Cost.)», aveva altresì detto che «l’iniziativa referendaria sarebbe stata certamente un’occasione, non solo per riconoscere diritti alle persone straniere che vivono da tempo nella comunità nazionale (che lavorano a fianco dei lavoratori e della lavoratrici italiani/e, che frequentano le scuole con i ragazzi e le ragazze italiani/e, che vivono nei quartieri abitati da tutti, che frequentano lo sport come tutti e tutte, ecc.), ma anche per riproporre un diverso modo di intendere la cittadinanza, non più come premio selettivo ma come risultato di una condivisione di vita, nelle diversità che caratterizzano ogni singola persona a prescindere dalla nazionalità».

 

Quest’idea di riconoscimento dei diritti, compresa la cittadinanza che una persona straniera sceglie di chiedere, sulla base di una eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) e di una appartenenza alla vita sociale, culturale e politica italiana, si è nuovamente scontrata con una visione strumentale, quella dello “spauracchio” nei confronti di persone straniere e migranti. Luoghi comuni prevalenti ancora oggi: lo straniero che invade, che ruba il lavoro all’italiano doc, e che ottiene prima “di noi” l’assegnazione di una casa… Una politica, che, tra l’altro, non colpisce solo “gli stranieri” degli approdi, quelli delle rotte balcaniche richiedenti asilo in fuga da guerre e persecuzioni, bensì tutti, e soprattutto coloro che vivono in Italia da tempo, italiani a tutti gli effetti, che aspettano un riconoscimento legale. Dunque, per dire, il compagno di scuola dei nostri figli. Quello voleva essere il focus del referendum nel quesito referendario. Il progressivo oscuramento dell’informazione non ha aiutato il dibattito.

 

«Al di là di modifiche marginali, che non hanno inciso sui suoi aspetti caratterizzanti, in questo lungo periodo che ci separa dal 1992 – rimarca l’Asgi –, la legge non è stata oggetto di interventi strutturali, nonostante molteplici tentativi in questa direzione. Sotto vari aspetti, la legge del 1992 è stata successivamente ancor più inasprita da riforme legislative volte ad ostacolare la cittadinanza italiana per gli stranieri. Sono ad esempio aumentati i tempi per l’ottenimento della cittadinanza per matrimonio, i termini per i procedimenti di naturalizzazione, sono stati introdotti onerosi contributi economici per la presentazione delle domande di naturalizzazione ed è stato previsto l’obbligo di dimostrare la conoscenza della lingua italiana».

 

Dopo l’approvazione della legge del 1992 però, è bene ricordarlo, l’Italia è diventata strutturalmente un paese di immigrazione. A dispetto delle vibranti campagne messe in atto a difesa dei confini (se pensiamo a quanto sta avvenendo proprio in queste ore negli Usa per contrastare la presenza straniera, addirittura con l’impiego di forze militari e federali) le persone migranti presenti in Italia sono una risorsa preziosa, necessaria, fondamentale. Il fatto che in Italia non esista una legge che garantisca la cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori immigrati è «una follia, un’assurdità». E non lo diciamo noi. Lo disse nel 2011 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale una delegazione della Federazione delle Chiese evangeliche in Italia (Fcei) che era in prima linea per la Campagna L’Italia sono anch’io. Oggi Sergio Mattarella ribadisce che la storia italiana è «fatta da sempre di emigrazione e di immigrazione» e che «chi opera nell’ambito della cittadinanza, attiva e solidale, giorno per giorno verifica il valore dell’attenzione alle necessità delle persone, si rende conto di quanto i valori della nostra Carta siano alla base del vivere insieme».

 

Tra Camera e Senato, a oggi, ci sono 18 testi depositati come proposte di riforma della cittadinanza (13 a Montecitorio, 5 a Palazzo Madama). Speriamo che possa iniziare presto una nuova e ulteriore – seria – discussione in materia.