Una «breve» storia dell’avventura umana

Quaranta millenni fa sulla Terra coabitavano almeno cinque specie umane differenti. Ne abbiamo parlato con il filosofo evoluzionista Telmo Pievani che lo ha raccontato insieme a Giuseppe Remuzzi nel libro «Dove comincia l’uomo»

 

La nostra specie è solo l’ultimo ramoscello di un albero intricato di forme che si sono succedute e hanno convissuto negli ultimi sei milioni di anni. Quaranta millenni fa sulla Terra (ancora) coabitavano almeno cinque specie umane differenti, e con almeno due di loro l’Homo sapiens ha interagito e si è ibridato. Ciascuna era la discendente di una delle tante migrazioni di forme del genere Homo fuori dall’Africa. Per capire l’unicità di Homo (e non la sua superiorità) il libro di Telmo Pievani e di Giuseppe Remuzzi Dove comincia l’uomo. Ibridi e migranti: una breve storia dell’avventura umana* edito da Solferino edizioni, ci aiuta a leggere meglio le tendenze evolutive in atto, le sfide della salute e dell’ambiente, gli scenari futuri. Ne abbiamo parlato proprio con il filosofo Pievani.

 

– Perché avete sentito la necessità di scrivere questo libro e di raccontare in modo semplice e divulgativo il percorso umano?

«Il libro nasce dalla raccolta di alcuni articoli usciti a nostra firma per Il Corriere della Sera. Quei testi, aggiornati, integrati e sistemati sono oggi parte del libro con capitoli divisi in modo cronologico sull’evoluzione umana. Perché il bisogno? Per raccontare quanto accade alla “frontiera della ricerca”».

 

– Avete però scelto un ramo particolare…

«La paleoantropologia, la fa un po’ da padrona in tutto il libro».

 

– Perché?

«Perché è una scienza in continua evoluzione, anche nei suoi presupposti, ed è successo un po’ di tutto negli ultimi cinque/dieci anni. Sono crollati vecchi paradigmi, sono cambiate tante idee, soprattutto nelle concezioni relative alla specie umana, in materia di ibridazioni – tra specie umane –, in materia di migrazioni. La scienza, come insieme di discipline fondate sull’osservazione, calcoli e procedimenti metodici, è in continuo aggiornamento. Possiamo definirla un’impresa di pensiero non totalitaria e non autoritaria. Se così la si vuol concepire, allora dev’essere racconta, spiegata anche come antidoto verso pregiudizi o falsi dogmi, capaci talvolta di inquinare il dibattito pubblico che imperversa soprattutto attraverso i social media».

 

– Partiamo da ciò che emerge dal libro.

«Abbiamo calcato la mano su una recente scoperta: ossia l’immane catastrofe che colpì il pianeta tra i 900 e gli 800.000 anni fa, un’epoca piuttosto antica, e che precede la nascita della nostra specie di Homo sapiens, una catastrofe che travolse il genere Homo, ossia il nostro gruppo di specie. A quel tempo, esistevano antenati di quelli che poi diverranno gli antenati dell’Homo sapiens. Questi subirono le conseguenze di un grande cambiamento climatico che portò alla quasi completa estinzione delle specie umane. Sopravvissero poco più di 2000 individui fertili, capaci poi di riprodursi. Noi discendiamo proprio da quel gruppo».

 

– Su quali basi scientifiche si piò affermare che furono solo 2000 gli esseri umani rimasti in vita nel nostro pianeta?

«I “colli di bottiglia” hanno un effetto quantitativo molto preciso: riducono proporzionalmente la variabilità genetica di tutti quelli che vengono dopo. Quindi, se si trova in una popolazione come quella umana una variabilità genetica particolarmente bassa, come in effetti è, l’unica spiegazione possibile è che in passato quella popolazione sia stata numericamente molto piccola. Adesso, grazie ai dati quantitativi e all’utilizzo dell’intelligenza artificiale, si può definire con precisione quanta di questa popolazione sia rimasta e quando è avvenuto il collo di bottiglia».

 

– Quindi la variabilità genetica umana è bassissima?

 «Gli esseri umani che abitano sulla terra, ossia gli Homo sapiens, sono pressoché identici per Dna. Se si analizzano diversi esseri umani presenti nel mondo (un aborigeno australiano, un europeo, un africano), si osserva che il Dna comparato è identico al 99,98%. Questa uniformità genetica certifica, dunque, che siamo tutti discendenti da un solo piccolo gruppo umano, rimasto in vita tra le specie prima presenti. Scimpanzé, gorilla, ossia le specie geneticamente più vicine a noi, hanno una variabilità genetica decisamente più alta e sono più sane dell’uomo, la variabilità genetica, ricordiamo nel libro, è segno di salute e di maggior adattamento».

 

– Nel libro, a tal proposito, parlate di sessualità, ricordate addirittura il primo bacio, di ibridazioni… 

 «Esatto, l’ibridazione è l’altra grande novità, è stata una “sorpresa” anche per noi con esiti impensabili nel solo recente passato. Dieci anni fa all’Università di Padova insegnavo l’Evoluzione umana con una tesi opposta a quella di oggi. Di fatto negando le potenzialità dell’ibridazione. Oggi sappiamo invece che le specie umane (che erano separate fisicamente e geograficamente: Neanderthal in Europa, noi in Africa, i Denisova in Asia orientale – a seguito della loro mobilità avvenuta per motivi ambientali e di sopravvivenza – si potevano ibridare nel tempo in cui la barriera genetica non s’era ancora chiusa. Quell’ibridazione permise a papà e mamme di specie umane diverse di accoppiarsi e dar vita a cuccioli sani e fertili, pronti per lasciare a loro volta una discendenza. In questo modo il loro Dna si è infilato nel nostro albero genealogico».

 

– Pensare di poter vedere un figlio nato da due specie (in questo caso umane) diverse sarebbe inconcepibile oggi?

«Questi cuccioli umani generati tra specie diverse erano accolti tra le comunità delle diverse specie senza difficoltà. L’ibridazione tra specie diverse permise che Dna diversi potessero creare quella che è la nostra linea di discendenza e quindi aggiungere le variabilità necessarie per rafforzare le successive discendenze, una cosa che ci ha resi più forti di fronte al freddo e a particolari malattie, a esempio. Beppe Remuzzi è stato il primo a mettere in connessione una sequenza neandertaliana del cromosoma 3 umano e il virus pandemico – una sequenza che agisce sul sistema immunitario, e in particolare modo sul sistema respiratorio –, infatti le persone con quella variante genetica più espressa, nel 2020, hanno avuto reazioni eccessive al Covid-19. Parlo di coloro che poi sono finiti in terapia intensiva o sono deceduti».

 

– Un pregiudizio dice: “gli evoluzionisti studiano solo cose del passato” …

«Non è così. La pandemia di Covid-19 è stato un esempio. Anche se il negazionismo scientifico è sempre dietro l’angolo. Fatto salvo il diritto di formarsi una propria opinione, o di aderire a un proprio “credo” di valori, talvolta a mio avviso solo consolatorio, ricordo che le incertezze generano disorientamento, e che questo disorientamento è spesso alimentato dalla sfiducia nei confronti delle istituzioni e della scienza, che è percepita come un’istituzione a volte chiusa in sé stessa. La scienza, invece, dev’essere divulgata per quello che è, diffusa senza superbia, come dato riscontrato e riscontrabile. Altrimenti si rischia di polarizzare il dibattito».

 

– Allora come si dovrebbe dialogare?

«Spiegando, a esempio, e con dovizia come si è arrivati ai vaccini mRNA, che cosa questi siano veramente; raccontando che i vaccini mRNA, cioè con l’Rna messaggero, considerati impossibili sino a pochi anni fa sono oggi la nuova frontiera scientifica. Ricordare il Premio Nobel Katalin Karikò, che ha dovuto lottare trent’anni per far passare la sua idea. O ricordare che un altro famoso premio Nobel quindici anni prima sosteneva che non si sarebbe mai arrivati a produrre vaccini mRNA, sbagliandosi. Dunque, che vi è una pluralità di voci anche al nostro interno, ma che la ricerca e lo studio, sempre capillari, producono risultati verificati».

 

– Dunque?

«L’Rna è sempre stato considerato un materiale genetico molto labile, leggero, perché si frammenta subito e si disperde, un dato che facilmente sfata il mito No-vax della sua persistenza nel nostro organismo. Alcune tecniche di gene editing recentemente lo hanno reso più stabile e vettore possibile per generare reazioni indotte e a difesa dell’agente patogeno. Se si riuscisse a raccontare tutto ciò senza tifoserie, forse qualcuno tra gli incerti saprebbe che l’mRNA, una volta inoculato, dopo aver agito si dissolve, non lasciando più traccia di sé».

 

– I futuri vaccini useranno tutti l’mRNA?

«Sì, perché sono più sicuri, costano meno, sono più efficaci. Quelli di vecchia generazione che prevedono il virus attenuato, più facilmente possono produrre reazioni avverse. L’utilizzo recente del nuovo, dopo la pandemia, ha reso disponibile una quantità enorme di dati scientifici».

 

– Sul web imperversano però commenti, talvolta definiti autorevoli che raccontano l’aumento di morti improvvise dopo i vaccini, soprattutto tra i giovani, e di effetti collaterali dovuti ai vaccini… Qual è la sua opinione in merito e in base alle sue conoscenze scientifiche?

«I dati statistici raccontano tutta un’altra storia. Le morti improvvise sono calate negli ultimi anni e non vi sono correlazioni con i vaccini. Abbiamo una base statistica di centinaia di milioni di persone. Non c’è più alcun dibattito su questo tema».

 

Prima lei ha usato il termine “credo”, il nostro giornale genera informazione partendo proprio dall’idea di fede…: nel vostro libro si evince che l’essere umano riesce a sopravvivere – in un mondo che non propriamente pensato per lui – attraverso la parola, il linguaggio, l’altruismo e il mutuo soccorso…

«Non posso rispondere alla domanda sul perché solo i Sapiens siamo rimasti l’unica specie umana presente sulla Terra prevalendo sulle altre; perché dobbiamo ancora scoprire tante cose. Capire perché, una volta usciti dall’Africa, siamo nel tempo rimasti i soli… Spiegare il perché, dopo aver incontrato e vissuto con altre specie umane in sostanziale equilibrio demografico ed ecologico, le altre si siano estinte mentre noi no. Tuttavia, qualcosa accadde. Qualcosa che ancora non riusciamo a capire ma che fu capace di spezzare definitivamente l’equilibrio che tra i 50 e 40 mila anni fa fece sparire di fatto le altre specie umane per far diventare noi sapiens i dominatori del mondo».

 

– Dominatori invasivi…

«Molto invasivi, lo abbiamo visto e lo vediamo tutt’ora. Da quel momento in poi, ovunque sia arrivato Homo sapiens si è vista diminuire la biodiversità, estinguersi i grandi mammiferi. Da quel momento siamo diventati più aggressivi sul piano demografico, ecologico. E questo probabilmente proprio perché eravamo meglio organizzati in tema di sopravvivenza: dunque, la cooperazione, la capacità di stare insieme, di sacrificarsi l’uno per l’altra, per il proprio gruppo ha fatto sì che potesse aumentare anche la nostra creatività – con le sepolture rituali, gli ornamenti del corpo, o la nascita degli strumenti musicali. A quel tempo è come se fosse esploso qualcosa di inedito, di meraviglioso. La combinazione tra la cooperazione e l’utilizzo di un linguaggio articolato, quindi la capacità di parlare, di narrare, di immaginare, di far immaginare al prossimo intimi pensieri, o di migrare – insieme – anche per la caccia di animali pericolosi e dunque “sottometterli” grazie a tecniche articolate, pensate, immaginate, e magari raccontate la sera prima davanti al focolare: questa è stata la nostra forza.

La spiritualità umana è nata allora, lo sappiamo grazie al ritrovamento di pitture rupestri. Ma anche le sepolture rituali già allora dimostravano uno slancio astratto e da condividere con i compagni del gruppo umano. Pensiamo alla consapevolezza della morte e al suo mistero, arrivato poi nel tempo. Neanderthal, pur percependola la morte, non la sentiva, non sentiva la necessità di metabolizzarne la portata. In seguito, invece, le credenze religiose hanno poi avuto un ruolo decisivo e una forte valenza per la coesione sociale. Qualcosa, dunque, di sorprendente è accaduto nel nostro cervello: una rivoluzione culturale. Ma possiamo solo immaginarla questa rivoluzione: il linguaggio e la cultura non lasciano fossili, non lasciano segni di tipo biologico. Dunque, questa rivoluzione cognitiva potrebbe aver determinato la sopravvivenza dei Sapiens».

 

– Una specie di Big Bang intellettivo?

«Una capacità che probabilmente era già presente ma in modo latente, che poi è esplosa. Potremmo dire a scoppio ritardato».

 

– Abbiamo archiviato l’immagine evoluzionista darwiniana che vede la scimmia diventare nel tempo essere umano… Non discendiamo dalla scimmia, non siamo creature di Dio ma siamo il frutto di alcuni sparuti superstiti della specie umana (ibridati con altre specie umane) rimasti su questo pianeta? Le chiedo, se c’è un Dio in tutto questo racconto?

 «Da non credente, usando un concetto dal sapore “teologico” potrei dire che in tutta questa storia traspare un “Dio della contingenza”. Alcuni teologi usano questa categoria, che mi piace molto. Un Dio, se così lo si volesse vedere, che si lascia sorprendere dalla sua stessa Creazione. Non un Dio legato alla predeterminazione, concetto criticabile sul piano scientifico ed evolutivo ma, appunto, un Dio aperto alla contingenza. Alcuni teologi si chiedono: se crediamo in un Dio che si è fatto uomo, possiamo chiederci, che bisogno avrebbe avuto di farsi uomo se avesse già determinato tutto sin dal primo istante? Mi sembra una domanda filosoficamente corretta, l’idea di un Dio che ha deciso di lasciarsi sorprendere dalla libertà umana, e questo nel bene e nel male. Oggi per me è però dirimente un altro aspetto, quello etico e ambientale. Scienza e sensibilità religiose devono allearsi per difendere il futuro delle giovani generazioni e proteggere il pianeta che pazientemente ci ospita».

 

 

 

Foto: Pittura murale preistorica nella grotta Magura, Bulgaria