Una festa che ci ricorda il futuro

Il XXV Aprile non è una ricorrenza divisiva: al contrario è frutto e prefigurazione del dialogo

 

Ogni anno alcune voci politiche e mediatiche manifestano insofferenza ritenendo il XXV Aprile come una festa “divisiva”, in quanto ricorda la conclusione di una guerra che fu (anche) una guerra civile. Ora, il XXV Aprile, certo ricorda una vittoria e una sconfitta. Ma ricorda “quella” vittoria e “quella” sconfitta: la vittoria delle idee di libertà nei confronti del mantenimento di un regime basato su violenza e paura. Le idee che si sono affermate nell’Italia venuta dopo non nascevano dal nulla, e non erano il portato di una sola cultura: la Resistenza riunì uomini e donne, chiamò giovani, fra cui gente semplice e intellettuali e studenti, che troncarono la vita sociale, le relazioni avviate, gli studi e i mestieri, persone che buttarono via la propria tranquillità per gettarsi in un’avventura che fu pericolosa per tutti e per molti e molte fu tragedia. E lo straordinario era proprio il carattere ampio del loro schieramento: comunisti e socialisti, ma anche liberali, monarchici; cattolici ed evangelici, senza dimenticare coloro che, da militari, preferirono farsi deportare piuttosto che farsi arruolare nell’esercito di Salò (a loro è dedicato L’altra Resistenza. I militari italiani internati in Germania, il libro di Alessandro Natta che Einaudi pubblicò nel 1997, peraltro dopo un’attesa di molti anni).

 

Uno spiegamento di forze, culture, passioni intellettuali ed emotive rese solidali dalla ricerca della libertà contro la dittatura e l’occupazione. Per molti, una militanza che durava fin dall’avvento del fascismo. L’interesse comune per una nuova convivenza democratica, poi, si è incardinato nell’ordinamento sancito dalla Costituzione, la cui elaborazione fu lunga e complessa proprio perché il risultato potesse essere da un lato il più possibile inclusivo e dall’altro non immodificabile. Non essendo un idolo né un feticcio, la Costituzione prevede il meccanismo che regola le eventuali modifiche a sé medesima, alcune già messe in atto.

 

Dunque, ciò che è seguito alla dittatura fascista e alla guerra di liberazione è un organismo ben strutturato ma “aperto” e, di conseguenza, “accogliente”. Esso è stato raggiunto e messo in opera grazie a chi sacrificò una parte della propria esistenza, e in molti casi anche la vita, perché le idee diverse potessero coesistere nella dialettica democratica. Il contrario di un carattere divisivo. Può essere divisivo, anzi, chiamarsi fuori da questa impostazione culturale pluralista.

 

Eppure, sarebbe un errore pensare che l’opera di liberazione dell’Italia, condotta dai partigiani e dalle partigiane in appoggio a quella condotta dagli Alleati, si sia fermata al 25 aprile 1945. Coloro che poterono tornare alla propria vita “di prima”, non si accontentarono di liberare l’Italia. Vollero anche ricostruirla: nel senso materiale e in quello morale.

 

Il senso materiale è quello che abbiamo visto in pellicole che resero celebre il cinema italiano del primo neorealismo, in particolare nei film di Roberto Rossellini. Niente più studi cinematografici, ma storie di esistenze vere, piene di tragedia e di speranza, girate nei luoghi, veri anch’essi, dove viveva gente vera. Cioè fra le macerie. Inquadrature di pochi secondi, per esempio in Paisà, dicono molto più di tanti dialoghi scritti e recitati. Quella era l’Italia distrutta, che quelle persone vollero far ripartire: in molti casi lavorando di giorno e portando avanti, la sera, gli studi che avevano interrotto andando a mettersi in gioco per la libertà.

 

Da questo punto di vista la festa del XXV Aprile celebra non solo la conclusione di una lunga tragedia ma anche e soprattutto l’avvio di una fase nuova. Lunga, complicatissima, per carità (molti degli stessi dettati costituzionali, fra cui la materia che riguarda gli accordi con le fedi religiose, hanno dovuto attendere decenni per essere resi operativi), piena di contraddizioni e tuttora non completata. Ma ci si lavora nella libertà, e con il possibile coinvolgimento di chiunque si riconosca nei valori fondativi della Repubblica.

 

Oggi, mentre ci stanno lasciando i protagonisti di quegli anni, dobbiamo festeggiare e ringraziarli anche per aver dato l’avvio a questa nuova, pur difficile stagione, lungo la quale abbiamo visto il rifiorire delle città e delle fabbriche, ma anche la loro progressiva chiusura e l’invivibilità perniciosa dell’ambiente; abbiamo seguito guerre vicine e lontane, lo sviluppo dei servizi di istruzione e di sanità pubblici e la situazione di rischio in cui versano, le conquiste sociali e il terrorismo. Di tutto e di più, ma sempre nell’alveo della libertà garantita dalla Costituzione, in cui tutti e tutte possono riconoscersi, dire la loro ed eventualmente contestare. Prima, questa libertà, semplicemente, non c’era. C’era il fascismo. Questo sì, è un fatto divisivo.

 

Non basta. In questi ottant’anni il mondo è cambiato per mille motivi: oltre alle guerre, carestie, sviluppo accelerato, migrazioni. Soprattutto questo mondo è diventato più piccolo. E allora, nel festeggiare quello che è stato un nuovo inizio civile, terrei presenti le parole che il pastore Valdo Vinay pronunciò dai microfoni di Radio Roma, in una delle meditazioni bibliche rese possibili dopo dell’ingresso delle truppe alleate in Roma, e avviate nel novembre del 1944. A partire dal testo di Matteo che si rifà a Isaia, nel sermone di domenica 27 maggio 1945, diceva: «… l’Evangelo di oggi tocca il vivo della nostra piaga e ci annunzia Cristo come speranza del mondo perduto, speranza non soltanto dei singoli credenti, ma delle genti, dei popoli: Nel nome di lui le genti spereranno» (Mt 12, 20-21).

 

Quando fu ideato e costruito, il centro di Agape volle indicare proprio questo con il suo piccolo/grande sogno, e lo indicò all’ecumene cristiana, nel segno della riconciliazione e in quello dell’apertura a tutte le voci possibili. In altro contesto, ce lo ricorda la Costituzione. Per quanti vi si riconoscono, perché ogni liberazione porta con sé un’idea di futuro.

 

 

Immagine: “Ladri di biciclette”(1948) di Vittorio De Sica