
La libertà di oggi ha radici profonde: 80 anni di 25 aprile
Non siamo ancora in grado di storicizzare il periodo della dittatura fascista e la guerra successiva, che ha fondato lo Stato democratico. Intervista con lo storico Carlo Greppi
È in distribuzione in tutto il territorio del pinerolese nell’area sud della provincia di Torino (lo trovate in centinaia di luoghi pubblici, dalle biblioteche ai negozi) il numero di aprile del mensile free press L’Eco delle valli valdesi che potete leggere integralmente anche dal nostro sito, dalla home page di di www.riforma.it.Il numero è pressoché interamente dedicato agli 80 anni dalla Liberazione dal regime nazifascista.
Lo storico Carlo Greppi con Alessandro Rocca (filmaker e regista), Barbara Berruti (direttrice dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea – Istoreto) e Chiara Colombini (ricercatrice dell’Istoreto) hanno prodotto un documentario sui luoghi della Resistenza torinese. Parte da qui, dall’importanza del luogo nella narrazione, il nostro ragionamento sugli 80 anni dalla fine della guerra di Liberazione.
– Ci racconta prima di tutto qualcosa sul nuovo lavoro, visibile da fine aprile ?
«Avevamo prodotto l’anno scorso un documentario sugli Otto del Martinetto, sul comando del Comitato militare regionale piemontese, che vide otto suoi membri fucilati, nel ’44. È stata un’esperienza riuscita, di racconto della storia attraverso un mezzo, il documentario, che è tradizionale quanto la scrittura, che però può arrivare a molti cuori. Quindi abbiamo deciso di allargare il campo e di provare a raccontare l’ultima fase della Resistenza sul territorio, che ha portato a una liberazione assolutamente radicale dal fascismo, da cinque anni di guerra e da venti mesi di occupazione».
– Un documentario che racconta un periodo storico ormai lontano: come si cattura l’interesse?
«Penso che riuscire a raccontare una storia ormai molto lontana nel tempo attraverso i documenti, le fonti, i luoghi, sia una delle opportunità che abbiamo per mantenerla viva, sapendo che è anche fisiologico che il tempo ci allontani un po’ da quelle vicende e che le giovani generazioni abbiano voglia di sentire parlare anche di altro. Per cui noi abbiamo il dovere di stare in una posizione di ascolto, ribadendo però le ragioni per cui a noi interessa così tanto questa storia. Ovviamente, in qualche maniera, si deve rivolgere a un pubblico che non è più stato il protagonista diretto di quelle vicende.
Non so se ci sono delle chiavi che si possono usare per agevolare questo processo di avvicinamento di un pubblico nuovo. Penso che questo documentario sia un’ottima sintesi di diverse sensibilità: c’è chi dice, con ottime ragioni, che la storia si debba fare a partire dalle fonti, dai documenti; c’è invece chi pensa che si debba far leva sulle emozioni, sull’enorme energia sprigionata da ragazzi e ragazze del secolo scorso, che, anche con incoscienza, erano proiettati verso un futuro che era tutto fuorché scontato».
– Ha parlato del 25 aprile come una liberazione radicale. È stato veramente così? Oppure no?
«Distinguiamo i due piani. La Liberazione è stata assolutamente qualcosa di straordinariamente radicale, che ha segnato una rottura profondissima con il passato recente; poi fin da subito si è iniziato a parlare di Resistenza tradita, di liberazione incompiuta. In particolar modo a partire dalla rottura dell’unità antifascista tra il 1947 e il 1948, con l’avvento delle dinamiche della Guerra fredda, con la ricostituzione del Msi e in generale con la permanenza del fascismo e dei suoi reduci nella società, nella politica, nella mentalità italiana. È chiaro che tutto ciò ha lasciato un sapore molto amaro fin dalla fine degli anni ’40, però non dobbiamo essere deterministi, non dobbiamo farci sporcare lo sguardo. Perché la capacità che la Resistenza ha avuto, partendo politicamente divisa, di arrivare politicamente e militarmente unita e di “costruire un paese da capo” è un processo straordinario. In questo contesto si inserisce l’arco costituzionale che ci ha traghettato nella democrazia e che sostanzialmente rappresentava tutte le anime dell’antifascismo: dall’estrema sinistra al centrodestra: questo è qualcosa di strabiliante!».
-Oggi dobbiamo fare un passaggio epocale a mano a mano che i testimoni diretti ci stanno lasciando: passare da ricordo e memoria a storia.
«Probabilmente ci deve essere un salto di qualità nel modo in cui si parla di Resistenza. Si è delegato troppo, negli ultimi decenni, alla figura del testimone, che è stata a volte sovraccaricata di pesi in un ruolo che non era giusto avesse. Poi ci sono territori che sono stati più fortunati di altri, hanno avuto chi ha saputo interpretare la trasmissione delle vicende in termini assolutamente coinvolgenti, sia storici sia memoriali, sia etici sia politici. Ma non tutti i testimoni possono calarsi in un ruolo così totalizzante, ne è giusto chiederglielo soprattutto con l’avanzare dell’età. Forse siamo di fronte a un’occasione per vedere se le generazioni successive sono in grado di rinnovare un racconto che mostri quanto è stata decisiva quella stagione o se invece ci siamo troppo seduti sui racconti di chi l’ha vissuta».
– Infine una riflessione sul ruolo della scuola in questo momento storico…
«La scuola, in tempi più recenti, ha usato tantissimo la figura del testimone con tutte le implicazioni di cui sopra. Io sono autore di manuali, vado spessissimo nelle scuole, entro ed esco dalle aule di tutta Italia da tanti anni e penso che fra quei banchi si giochi una partita fondamentale, anche perché la maggior parte delle persone poi non si occuperà più di questi temi, una volta terminato il ciclo scolastico. Dopo rimane solo l’eventuale interesse personale, che può portare ad approfondire temi storici mentre a scuola sono obbligatorie al di là dell’interesse del singolo studente.
È chiaro che soprattutto l’ultimo anno delle scuole superiori (che è dedicato in gran parte al Novecento), rappresenta una grande occasione, da non perdere, per provare a condividere con questi giovani adulti, il senso di quello che facciamo. Purtroppo però a livello governativo ormai c’è un assedio vero e proprio alle menti e ai cuori di questi ragazzi e queste ragazze che si vuole far diventare dei giovani nazionalisti. È proprio un disegno plateale, è terrificante perché sappiamo dove porta il nazionalismo».
– Bisogna essere ottimisti?
«Si! Mi auguro che i giovani e le giovani abbiano delle energie tutte loro, che il sano “ribellismo” di un adolescente si ritorca contro questi progetti politici di riscrivere la storia, anche quella che consideravamo patrimonio comune, come la Resistenza».