
Diaconia politica: tra vocazione e necessità per le chiese
Riflessioni dal Convegno della diaconia del IV Distretto
Parlando di diaconia è per me immediato il collegamento con la vocazione della nostra chiesa, che si esplicita nella testimonianza attiva dell’evangelo e nella cura verso gli ultimi e le ultime. Se poi pensiamo che tale testimonianza è fatta di relazioni sociali e avviene nel mondo, la nostra diaconia non può che essere politica.
Nei gruppi di riflessione del pomeriggio del sabato del Convegno della diaconia del IV Distretto delle chiese metodiste e valdesi (Riesi, 29-30 marzo 2025), opportunità per conoscere anche più da vicino la missione e le potenzialità delle nostre opere diaconali, si è parlato molto di sfide sociali del presente e degli elementi che dovrebbero informare la nostra diaconia politica. Tra possibilità di implementare forme di economia circolare per ridurre la dipendenza dai finanziamenti dell’Otto per mille, proposte di ampliare le reti di collaborazione a livello ecumenico e internazionale per sperimentare e condividere nuove forme di azione sociale, e la necessità di garantire con frequenza gli spazi di confronto e condivisione di pensieri e buone pratiche, un aspetto che mi sembra importante evidenziare riguarda il non limitare il nostro intervento, nella realizzazione di progetti sociali, alla partecipazione a bandi pubblici, ma di mettere al centro l’ascolto dei bisogni reali di gruppi sociali e di territori marginalizzati.
Il “volgere lo sguardo” dalle modalità attraverso cui operano le istituzioni centrali verso quelle che sono le richieste che ci provengono dalle periferie della nostra società, oltre a rappresentare un’opportunità per riconoscere Dio ⎻ sulla scorta di quanto insegna Marcela Althaus-Reid ⎻ nei “vicoli bui” lontani dalle arterie di comunicazione dell’impero, è un modo per rispondere a molteplici sfide del presente. Tra queste ritengo di primaria importanza la de-colonizzazione dello sguardo verso i bisogni delle persone, che da un lato pretende paternalisticamente di conoscere le realtà dove opera meglio di coloro che le vivono, e dall’altra non mette al centro le persone stesse ma appunto dei supposti bisogni in un’ottica estremamente verticale. Tra i concetti emersi nella discussione figurano infatti “militarizzazione dei territori”, “progettazione verticale”, “finanziamenti a pioggia”, a cui si è cercato di rispondere con proposte di cooperazione orizzontale, dal basso, educazione e cura (parole, queste, protagoniste già dalla mattina del sabato).
Una nuova dignità ai contesti marginali; uno sguardo profetico di critica alle mancanze odierne del sistema di welfare statale e di annuncio evangelico che anticipi la crisi invece di rincorrerla; la centralità del paradigma ecologico come terreno di nuove relazioni tra le persone e tra queste e l’ambiente; lo slancio ecumenico in un’ottica della diversità come ricchezza; il networking internazionale come fonte di nuove pratiche e spunti di riflessione… Tutti questi concetti emersi dal lavoro in gruppi, dalla restituzione in plenaria e dalle conclusioni finali ne informano uno ulteriore e di duplice aspetto, ossia la diaconia come resistenza e la politica come atto diaconale. Se infatti da un lato la nostra vocazione deve scontrarsi con tendenze individualiste, logiche di profitto e la sponsorizzazione di una guerra tra persone povere, dall’altro il senso del nostro agire nel mondo deve coesistere col nostro non essere del mondo: ogni nostro atto politico non può dunque prescindere dal servizio verso il prossimo, dalla sequela di Cristo, dal mettere al centro la persona al di là di tutte le categorizzazioni che la società impone, al fine di poter dare concretezza alla Parola di Dio e riconoscerne il potere trasformatore.