
L’identità, tra Neher e Taylor
Riflessioni che muovono dall’Esodo ma giungono a interessare la filosofia contemporanea
Scrive André Neher: «Genesi ed Esodo si incontrano al crocevia del Chi? e del Dove?». «Il problema dell’identità ebraica», infatti, non può essere affrontato a partire «dalla domanda: “Chi sei?”. L’Ebreo è in relazione con la prima domanda posta da Dio ad Adamo nella Genesi: “Dove sei?”. Nella problematica ebraica ne è della stessa identità di Dio»1. Invece il Faraone, sollecitato da Mosè al fine della libertà degli ebrei, chiede: “Chi è Dio?”. Come dire: non Lo conosco. Spiega Neher: «Non puoi domandare: “Chi è Dio?”. Sarebbe negarlo. Tutto quello che puoi domandare è: “Dov’è Dio?”»3.
Ecco, il filosofo del Québec Charles Taylor, nella monumentale opera Sources of the self. The making of the modern identity (Harvard University Press, Cambridge MA 1989), prende sì le mosse dalla domanda: Chi sono io? per poi scorgere la risposta innanzitutto nella mia (tua, sua) collocazione morale. Il Chi, cioè, viene tradotto in un Dove: dove sono, dove mi trovo? Qual è il mio spazio morale? E la “coordinata spaziale” incontra quella “temporale”: pormi il problema dell’orizzonte (il mio, il tuo, il suo) vuol dire rivolgermi a uno scopo. Proprio lì, nello scopo, si situano il senso, il significato della mia (tua, sua) vita.
Non solo: la “situazione originaria” dell’identità esige degli interlocutori. Non siamo figli del nulla, o del vuoto, piuttosto espressione di un contesto, di un ambiente, di un mondo. O, se vogliamo, di uno spazio comune, pubblico. Possiamo da esso scostarci; una frattura potrà da esso dividerci, come non di rado accadeva ai profeti o ai salmisti, e a maestri del pensiero come Socrate. Anche in ciò abbiamo tuttavia bisogno di una “rete di interlocuzione”, di forme di condivisione; altrimenti rischiamo di naufragare, di perderci nella follia.
E dunque: da dove parlo? e a chi mi rivolgo?
Aggiungerei che persino il naufrago, per come classicamente ce lo rappresentiamo, avverte spesso l’esigenza di lasciare (e lanciare) un messaggio in bottiglia (una sorta di lettera al mondo): fuor di metafora, non di rado è proprio lì lo spazio del salmista, del profeta o del poeta e dell’artista. Ed è anche il luogo di non pochi di noi, quando proviamo a esprimere il nostro smarrimento. Gli stessi sintomi della psicopatologia o gli stessi “agiti”, in fondo, cosa sono se non tentativi (in genere vani e maldestri) di dar corpo e voce alla sofferenza e alle mutevoli forme del disagio?
A. Neher, Ils ont refait leur âme, Éditions Stock. Paris 1979; trad. it. di R. Cuomo, Hanno ritrovato la loro anima. Percorsi di teshuvah, Marietti, Genova-Milano 2006, p. 82.