L’orologio del tempo

Nell’approssimarsi del 25 aprile, viene da domandarsi se questo ottantesimo anniversario della Liberazione abbia qualcosa di diverso dagli altri che lo hanno preceduto. Lo chiediamo a Nino Boeti, presidente dell’Anpi di Torino

 

«Giuseppe Ungaretti in un suo componimento, scritto a Mariano del Friuli – partecipando alla Prima guerra mondiale –, disse: “Di che reggimento siete, fratelli?”: quel “fratelli” era riferito ai nemici. Oggi, con l’avvicinarsi dell’Ottantesimo dalla Liberazione è più che mai necessario riscoprire quel senso di fratellanza, guardando però senza infingimenti alla storia. Per rispondere alla sua domanda: sì, c’è qualcosa di diverso, ed è una questione importante, direi dirimente: i testimoni del passato stanno scomparendo. Tra dieci o vent’anni, molti tra i partigiani che abbiamo avuto la fortuna di incontrare e di conoscere, di ascoltare, non ci saranno più. Io ho cominciato a fare attività politica nel 1994 nel Comune di Rivoli (To), ed erano altri tempi: l’antifascismo era radicato nel tessuto sociale, malgrado vi fossero ancora delle nostalgie, ed è stato in quegli anni che ho potuto incontrare tante partigiane e tanti partigiani. Con loro andavamo nelle scuole e parlavamo ai ragazzi, ascoltavamo le ragioni per le quali si era combattuto per la libertà e per la democrazia. Oggi l’orologio del tempo sta purtroppo riducendo queste importanti testimonianze di donne e uomini coraggiosi. Lo stesso orologio dovrebbe riportare le lancette del tempo a quando l’apologia del fascismo era considerata intollerabile».

 

José Saramago, premio Nobel per la Letteratura, disse: «Noi siamo la memoria che abbiamo e l’impegno che ci mettiamo. Senza memoria non esistiamo e senza impegno, non meritiamo di esistere…»

«Infatti è così, su queste basi partecipiamo a tutte le commemorazioni per ricordare le stragi più importanti come a quelle dedicate a ogni singolo individuo che ha lottato per la Liberazione; non c’è un angolo del Piemonte dove non si siano verificati esempi di coraggio, di eroismo. Occorre ricordare che oltre sei milioni di persone sono state rastrellate, gasate e poi bruciate nei campi di sterminio dai nazisti e che chi permetteva che gli ebrei salissero sui carri piombati – e con loro i dissidenti politici, i rom e tutte le minoranze in dissenso e sgradite dal regime – erano proprio gli italiani, fascisti».

 

La Rai sta mandando in onda una serie televisiva tratta dal libro di Andrea Bouchard Fuochi d’artificio, che narra l’impresa di alcuni adolescenti partigiani. L’Eco delle valli valdesi ha pubblicato l’intervista a quattro giovani iscritti all’Anpi: segnali positivi in un periodo di scomparsa dei testimoni diretti?

«Questa osmosi tra il passato e il presente è necessaria come scrigno di memoria, di fatto è un passaggio del testimone. L’Anpi di Torino ha ottomila iscritti, 83 le sedi in Italia. Sin dai suoi esordi l’Anpi ha traghettato intere generazioni, come la mia – che non ha combattuto ma che è stata testimone diretta delle parole e del lavoro di altri uomini e donne –, e oggi grazie ai più giovani porta avanti principi e valori per noi cari, un ponte di fatto, tra il passato, il presente e il futuro».

 

– C’è chi sostiene che l’esito delle Seconda Guerra mondiale non sarebbe cambiato anche senza l’impegno partigiano…

«Gli alleati inglesi e americani avrebbero vinto la guerra senza l’impegno partigiano, questo è vero, ma se non ci fossero stati 240.000 partigiani tra cui 36.000 donne e 20.000 partigiani stranieri impegnati a combattere assieme agli alleati, avremmo probabilmente fatto la fine della Germania, poi divisa in due, o del Giappone che ha avuto un protettorato americano per anni. Invece, la guerra di Liberazione ci ha consegnato la possibilità di indire un referendum per scegliere tra la Repubblica e la monarchia, di mandare via un re inetto legato al fascismo, di aprire il percorso Costituente, dove per la prima volta le donne e hanno potuto essere votate ed elette. Una tessera elettorale per le donne, sosteneva Anna Garofalo, è “Più preziosa della tessera del pane”. Abbiamo realizzato quel documento straordinario che è la nostra Costituzione. Molti Paesi hanno combattuto il fascismo e il nazismo, altri paesi hanno saputo invece guardare senza infingimenti alla propria storia, come la stessa Germania. In Italia non ci siamo mai riusciti sino in fondo. Nelson Mandela, quando divenne presidente del Sud Africa, disse: “Che cosa faremo di tutti quegli uomini [i suprematisti bianchi, ndr] che hanno vessato la popolazione del Sud Africa, violentato le nostre donne, ucciso i nostri figli?”; la sua risposta fu quella di istituire i tribunali del perdono; bastava dunque riconoscere la responsabilità di quanto successo perché quel terribile capitolo, in qualche modo, potesse essere chiuso. Bastava ammettere le proprie responsabilità e i propri errori. Non dimentichiamo che molti fascisti in Italia dopo la Liberazione ricoprirono posizioni di potere, di prestigio, come Almirante (che nel 1943 era segretario di redazione della rivista La difesa della razza) o Marcello Guida, capo della sorveglianza al confino di Ventotene, diventato poi questore».

 

Un errore della neonata democrazia?

«No, la democrazia è sempre necessaria. Tuttavia non possiamo dimenticare che le stragi di Brescia, di Bologna, dell’Italicus, che hanno insanguinato il nostro paese, erano tutte di matrice neofascista. Vittorio Foa, intellettuale, partigiano, allora senatore, incontrando il collega Giorgio Pisanò del Movimento sociale, gli disse: “Vedi Giorgio, abbiamo vinto noi e tu sei qui in veste di senatore, se aveste vinto voi io sarei morto probabilmente in galera”».

 

Abbiamo ricordato sul nostro giornale e sul supplemento L’Eco delle valli valdesi il ruolo della Resistenza in Italia e più in specifico nella nostra Regione: che cosa si può dire del Piemonte?

«È importante ricordare che molti partigiani piemontesi si distinsero per le loro azioni. E che seimila meridionali combatterono nella lotta di Liberazione sul nostro territorio. Furono poi 650.000 gli internati militari italiani che si rifiutarono di entrare a far parte della Repubblica di Salò. Tra questi, 150.000 morirono durante il lavoro forzato e altri 50.000 per le malattie contratte in prigionia. Infine, ma non ultimo, l’impegno delle donne nella lotta di liberazione: 2750 deportate, 623 fucilate o uccise in combattimento».

 

 

Foto di TBD : Partigiani dell’Oltrepò Pavese subito dopo la Liberazione