
Trump e la guerra dei dazi
I precedenti e i possibili scenari rispetto all’andamento mondiale del commercio
I dati sui crolli delle maggiori “piazze” della Borsa mondiale stanno impazzando sulle prime pagine dei giornali, a seguito delle decisioni drastiche della nuova amministrazione statunitense. Ne parliamo con Giovanni Balcet, saggista e scrittore, già ordinario di Economia internazionale nell’Università di Torino e studioso dell’economia globale, in particolare delle multinazionali del settore auto. Vicepresidente dell’Osservatorio sulle Economie emergenti di Torino, fa parte del Comitato scientifico del Centro culturale protestante della stessa città.
– La nuova guerra commerciale dichiarata con clamore da Trump segna davvero una svolta nell’economia mondiale? Quali sono i precedenti storici?
«Si tratta di una svolta unilaterale che segna la fine della globalizzazione dell’economia globale, così come l’abbiamo conosciuta dagli anni Ottanta del Novecento, caratterizzata dall’ideologia neoliberista, da liberalizzazioni e privatizzazioni estese. Questa svolta arriva dopo un lungo processo, segnato dalla crisi del multilateralismo dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) sin dal 2003, dalla grande crisi finanziaria e produttiva del 2008-9, dalle guerre commerciali durante la prima amministrazione Trump (2017-2020), dalla pandemia da Covid e infine dalla guerra in Ucraina.
Se vogliamo citare dei precedenti storici, dobbiamo risalire al 1930, alla Smoot-Hawley Tariff, durante l’amministrazione Hoover. Fu il tentativo di scaricare sugli altri Paesi gli effetti del crollo di Wall Street del 1929, con dazi fino al 59% (i più alti della storia americana). Provocò ritorsioni da parte di 60 Paesi, il collasso del commercio internazionale e una depressione mondiale. Dal 1934 l’amministrazione Roosevelt con il Trade Agreement Act aprì invece la strada al libero scambio. Trump dice con enfasi di ispirarsi a William McKinley, presidente dal 1897 al 1901, che alzò i dazi americani dal 38 al 50%. Salvo poi ricredersi e cambiare politica nel 1901 (ma questo Trump non lo dice)».
– Gli Usa sono sempre stati perplessi su tutto ciò che “sa di Europa”: ad esempio lo statalismo e il welfare (lo indicano gli stessi provvedimenti timidi di Obama sulla sanità). Ma l’imposizione di dazi non è una politica più dirigista e statalista che non liberista?
«Certamente lo è. Dovremmo aggiornare il nostro lessico. L’ideologia che ispira le politiche attuali non è più neoliberista bensì neo-mercantilista. Il mercantilismo è una visione conflittuale e statica dell’economia internazionale, vista come un gioco a somma zero: una torta da dividere, in cui i vantaggi degli uni sono gli svantaggi degli altri e il protezionismo è un’arma di potere. Nel mercantilismo guerra commerciale e guerra militare formano un intreccio infernale. E questo dovrebbe preoccuparci».
– Il primo effetto è stato il crollo delle Borse, giovedì e venerdì scorso: che cosa c’è di razionale, e che cosa di irrazionale, nelle misure adottate?
«Sottolinea Albert Hirschman che alla base dell’agire economico vi sono passioni e interessi, cosa di cui gli illuministi erano ben consapevoli. Da Adam Smith in poi però la disciplina economica si fonda sull’idea che siano solo gli interessi a determinare le scelte degli attori sul mercato. Forse per interpretare la politica di Trump, con le sue contraddizioni e i suoi paradossi, può essere utile considerare, accanto al calcolo degli interessi, anche le passioni ideologiche, che sono molto forti. Siamo nel contesto di un populismo aggressivo».
– Trump parla di Europa, e di Usa che sono stati danneggiati. Ma non è la Cina, piuttosto, il vero competitore economico degli Usa?
«Trump considera come atti ostili i saldi commerciali positivi (esportazioni meno importazioni) degli altri Paesi, compresi il Messico e il Canada, i paesi asiatici e ovviamente l’Europa. Non considera i surplus americani nei servizi e nei beni intangibili dell’economia digitale. La sua visione neo-mercantilista trascura un fatto fondamentale: gli Stati Uniti hanno il privilegio di emettere la principale moneta internazionale, il dollaro. Questa visione mette in crisi il tradizionale ruolo degli USA come “debitore armato”, importatore di ultima istanza. Con i loro deficit di bilancia dei pagamenti correnti hanno fornito liquidità al sistema dei pagamenti internazionali sin dagli anni 1950. Grazie al dollaro, gli americani vivono al di sopra dei propri mezzi. E si lamentano.
Certamente la Cina è il concorrente principale, sul terreno economico e tecnologico, è la potenza emergente. Il terreno principale di competizione sono le nuove tecnologie, la leadership nell’innovazione. Emerge un “nazionalismo tecnologico”».
– Che cosa ne pensano le imprese Usa? Sono convinte o perplesse su queste misure? E i cittadini americani?
«Una parte consistente delle importazioni americane dalla Cina provengono da imprese multinazionali americane che producono in quel paese, basti pensare ad Apple o a Tesla. I danni del nuovo protezionismo per loro sono notevoli. Trump sembra ignorare che estese catene del valore, ovvero reti produttive internazionali, avvolgono il pianeta. Queste reti si stanno rimodulando ma restano fondamentali. Bloccare o rallentare la frontiera di Tijuana significa mettere in crisi le fabbriche di Detroit. Sono politiche autolesioniste. Paradossalmente, ma non troppo, è ora la Cina a difendere il libero scambio.
In quanto consumatori, gli americani pagheranno in termini di inflazione (i dazi sono imposizioni fiscali che si scaricano in gran parte sui prezzi finali) e in termini di minore crescita e minore occupazione. Vedremo se gli altri Paesi reagiranno con timidezza o con più energia».