
Cinema e trascendenza, fascino e limiti
La seconda edizione del la tesi di laurea del regista e sceneggiatore Paul Schrader
Agli inizi degli anni ’70 uno studente del Michigan, proveniente da una famiglia calvinista di origine olandese e molto osservante, presenta la sua tesi di fine corso all’Istituto universitario del cinema di Los Angeles, tesi che affronta di petto la presenza del trascendente nel cinema, tema che gli era stato suggerito dalla visione dei film di alcuni maestri: nelle opere di Carl Th. Dreyer (danese, protestante), Ozu Yasujiro (giapponese fornito di adeguata cultura zen) e di Robert Bresson, regista francese di un cattolicesimo vicino al giansenismo, Paul Schrader rinviene delle modalità espressive che consentono di cogliere la presenza di qualcosa di “ulteriore”, qualcosa che non si vede.
La tesi diventa subito un libro. Ma nel frattempo Schrader, nato nel 1946, fa carriera nel cinema, su due versanti: da un lato i film realizzati come regista – il più noto è American Gigolò (1980), ma il più bello è Affliction (1997, dal romanzo di Russel Banks) – ; dall’altro collabora con Martin Scorsese, un italoamericano che ha studiato presso i gesuiti: Taxi driver (1976), Toro scatenato (1980), L’ultima tentazione di Cristo (1988), Al di là della vita (1999). Una sorta di ecumenismo cinematografico.
Qual è la tesi di Schrader? Sgombrato il campo dai film di argomento religioso (dai kolossal tipo I dieci comandamenti in avanti), la questione è diversa: può il cinema, intimamente legato alla realtà “filmabile” dalla cinepresa, mostrarci qualcosa che è invece ineffabile, trascendente, appunto? L’autore rileva nelle modalità espressive soprattutto di Ozu e Bresson una tendenza a superare il racconto. Il modo in cui filmano, fatto di iterazioni, ripetizioni, dettagli che parrebbero inessenziali (come una porta filmata per alcuni secondi dopo che un attore l’ha oltrepassata), consente allo spettatore di estraniarsi e seguire un flusso che non è quello dei fatti, ma della loro rielaborazione interiore.
In almeno due dei capolavori di Bresson (Pickpocket, 1959, ma soprattutto il Diario di un curato di campagna, 1950, da Bernanos) il protagonista tiene un diario e la sua voce spiega ciò che sta per fare. Noi vediamo quelle azioni precedute dal loro annuncio, le depuriamo, per così dire, della loro sostanza “fisica” e immanente, e le collochiamo in un universo rarefatto e coinvolgente, che sta non nel dramma, ma nell’adesione al loro contenuto spirituale.
Schrader ha aggiunto nel 2018 una cinquantina di pagine, in cui affronta altri autori, dal più noto Andrej Tarkovskij (russo esule in Francia e Italia, che ha assorbito la cultura ortodossa per quanto il regime dell’Urss poteva consentire, ma l’ha rielaborata in una poetica tutta sua, basata essenzialmente sulla lentezza e sulla contemplazione attraverso l’immagine: una sorta di decantazione del tempo) ad autori viventi (Bela Tarr su tutti) che fanno del linguaggio innovativo il motore della loro ricerca.
L’operazione è altamente coinvolgente. Però si affacciano due perplessità: la prima è sul titolo del libro, che nelle due edizioni italiane suona Il trascendente nel cinema, con un accento sul contenuto di questo o quel film. Dal titolo originale invece, Trascendental Style in Film, si capisce subito che si tratta piuttosto di linguaggio cinematografico, di stile appunto.
Più che nella prima edizione, poi, si evince che l’interesse dell’autore è per una forma di trascendenza che di volta in volta associa determinati procedimenti stilistici a una materia debitrice di cultura cristiana o di culture altre. Il nostro occhio di credenti, però, non può fermarsi su questa soglia. Per noi il trascendente richiama la vita concreta di Gesù Cristo e l’incarnazione di Dio in lui. La modalità migliore che il cinema ha per parlarne è – come diceva il teologo riformato francese André Dumas – raffigurare ciò che è invisibile attraverso ciò che è visibile: cioè mostrare gesti e parole che possono cambiare le esistenze e i rapporti fra le persone. La bambina che, sola fra i presenti, crede in Ordet (Carl Th. Dreyer, 1955) che la mamma possa riaversi dalla morte, come sostiene lo zio studente di teologia un po’ pazzo, e che sorride improvvisamente illuminandosi, ci fa capire che a volte ciò è possibile.
* P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Bologna, Marietti, 2025, trad. di Christian Raimo, pp. 280, euro28,00 (1a ed. Donzelli, 2002).