Il lavoro uccide

La strage di lavoratori – un dato di fatto: i numeri lo confermano, anno dopo anno – è direttamente collegata a ciò che li rende tali: il lavoro, appunto

 

L’altro ieri, 25 marzo, altri tre morti di lavoro: Nicola Sicignano, 50 anni, stritolato da un nastro trasportatore; Daniel Tafa, 22 anni, trafitto da una scheggia d’acciaio incandescente; e poi, travolto da un camion in autostrada, Umberto Rosito che aveva 38 anni.

 

È la normalità, non un’eccezione. Il 21 marzo era stato il turno di Roberto Falbo, 53 anni, caduto dal tetto di una fabbrica a Lamezia Terme e di Marius Bochis, 41 anni, precipitato dentro un silos vuoto a Pontelagorino, nel Polesine. Campania, Friuli, Umbria, Calabria, Veneto: il lutto avvolge l’Italia intera. Capita ogni giorno, o quasi.

 

Nessuno ci fa più caso, tranne i figli, i compagni, i genitori, gli amici di chi crepa per sopravvivere.

 

«Sono tragedie che affondano le loro cause nel risparmio a ogni costo, nella fretta, nella mancanza di investimenti e di controlli» spiega Francesca Re David (FIOM-Cgil), che si appoggia alle parole del suo segretario generale Landini: «Con i referendum su lavoro e cittadinanza si può fermare la strage».

 

Il più grande sindacato italiano ha ragione a promuovere il referendum: è vero che i controlli sono insufficienti, è vero che il risparmio esasperato implica rischi enormi, è vero che il precariato e l’ingordigia del profitto sono un cappio al collo di ogni salariato. Eppure, a me sembra che, così, si continui a scambiare l’epifenomeno per il fenomeno. A confondere la causa con l’effetto.

 

La strage di lavoratori – un dato di fatto: i numeri lo confermano, anno dopo anno – è direttamente collegata a ciò che li rende tali: il lavoro, appunto. Come possiamo continuare a negare, rimanendo all’ombra delle tradizionali filosofie lavoriste di destra e di sinistra, che è proprio il lavoro a uccidere? Non vorrei sembrare superficiale o irridente: ma qualcuno è mai morto d’ozio? Di fame sì, ma d’ozio? Uscendo dal paradosso: chi ricorda quant’è vecchio l’accordo sulle otto ore di lavoro, scambiate ormai da tutti per un dato di natura?

 

Occorre tornare al 1919, al «biennio rosso» del Novecento.

 

Il 20 febbraio del 1919 la Fiom formalizzò con la Confederazione degli industriali un accordo per la riduzione dell’orario di lavoro a 8 ore giornaliere e 48 settimanali. Nei cantieri navali erano, prima, 60; e negli stabilimenti siderurgici addirittura 72! E occorre anche ricordare che le Trade Unions, in Inghilterra, avevano conquistato le «dieci ore» già nel 1848: settant’anni prima. Siamo giunti al 2025. Da 105 anni lavoriamo otto ore al giorno (se va bene): è trascorso più di un secolo, quel lento processo di liberazione s’è interrotto.

 

Riflettiamoci: che cosa, intorno a noi, è ancora uguale al mondo del 1919? Gli abiti che indossiamo, gli occhiali, i tessuti: tutto è cambiato. È cambiata la musica e sono cambiate le parole. Sono cambiati i rapporti e le relazioni, il cibo e la sanità, i sogni e le paure, i desideri e i confini della nostra immaginazione. L’agricoltura e l’aeronautica, la cosmologia e lo sport, le poste e le comunicazioni. Solo la guerra – centocinque anni fa ne eravamo appena usciti – somiglia sempre a se stessa: dobbiamo farne un’altra per avvertire di nuovo l’impellenza del cambiamento?

 

Si badi: non è un’astratta pretesa filosofica, questa; è, al contrario, un concreto e necessario atto di autodifesa: il lavoro uccide – che sia per sete di profitto, per disorganizzazione, per disprezzo, per avida stoltezza o per corruzione – non importa come o perché accada. Il lavoro continua a uccidere perché si lavora troppo, troppo a lungo, troppo intensamente. Ed è anche, qui da noi, il meno pagato del mondo industrializzato: è tanto, è troppo, è infame.

 

Quindi: per Nicola, Daniel, Umberto, Roberto e Marius, gli ultimi cinque di questo infinito rosario di morti di lavoro che domani purtroppo si allungherà ancora. Per i morti e per i vivi: è giunta l’ora di tornare a confrontarci su uno dei più controversi e infausti cardini della nostra civiltà dei consumi. Va fatto, è urgente, anche a costo di trovare il coraggio di ridiscutere – almeno in Italia – l’articolo Uno della Costituzione: fu proprio sul marmo di quella parola ambigua – «lavoro» – che si costruì l’intero edificio repubblicano.

 

 

Per gentile concessione dell’autore e di articolo 21.org