A quale futuro va incontro l’Unione europea?

La questione della difesa comune e la complessa dialettica fra Stati membro e impostazione corale

 

Il 15 marzo è stata convocata a Roma una manifestazione pubblica a favore dell’Europa. Non è frequente che migliaia di persone si radunino in piazza per esprimere sostegno agli ideali europei sventolando bandiere blu con le dodici stelle disposte a cerchio. Il momento è, effettivamente, particolare e una diffusa sensazione di disorientamento si accompagna alla preoccupazione per il futuro che attende il Vecchio Continente. Improvvisamente e insolitamente anche l’opinione pubblica italiana ha colto, con maggiore consapevolezza, ciò che, pur essendo pacifico da anni, viene costantemente trascurato nel dibattito politico: il destino del nostro Paese è indissolubilmente legato a quello dell’Europa intera. Con una non trascurabile differenza rispetto al recente passato.

 

Oggi, per la prima volta da decenni, è in discussione non solo il futuro economico e di benessere sociale dell’insieme dei popoli europei ma anche la loro sicurezza rispetto a una potenziale minaccia esterna da fronteggiare senza la certezza del rassicurante impegno, al loro fianco, degli Stati Uniti d’America. Attraversiamo, dunque, momenti particolarmente delicati durante i quali la Storia (con la “S” maiuscola) può prendere una direzione o l’altra come conseguenza di scelte talvolta impulsive e non sufficientemente meditate e condivise. In questo quadro di incertezze, l’opinione pubblica può avere un ruolo decisivo per orientare le decisioni politiche ed è opportuno che faccia sentire la sua voce in modo ordinato. Ciò è tanto più doveroso a partire da una comunità che ha sempre vissuto la sua fede guardando oltre i confini nazionali.

 

Partiamo da una premessa essenziale. Il soggetto che decide e agisce nel quadro dei rapporti internazionali con gli Stati Uniti, la Federazione russa, la Cina o l’Ucraina dovrebbe essere l’Unione europea e non il singolo Stato membro, a cominciare dalla Francia, la Germania o l’Italia. All’Unione europea è, infatti, assegnata la competenza in materia di Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) che comprende, nel suo ambito, anche la Politica di sicurezza e difesa comune (Psdc). Esistono istituzioni (il Consiglio europeo, composto dai Capi di Stato e di Governo, il Consiglio dei Ministri degli esteri e della difesa guidato dall’Alto Rappresentante per gli affari esteri) chiamate espressamente a prendere decisioni condivise in argomento. Perché, allora, nei momenti decisivi e più delicati nel contesto di crisi internazionali, come quella che stiamo vivendo, l’iniziativa viene presa autonomamente dai singoli Capi di Stato, spesso in disaccordo tra loro e, comunque, senza una voce unica?

 

La risposta è tanto semplice quanto disarmante: l’Unione europea non è uno Stato e non agisce come tale, specialmente in politica estera e di sicurezza, nonostante l’attribuzione di competenze sulla base dei trattati istitutivi. La sua natura di Ente sovranazionale e il percorso di integrazione, che dura da oltre settant’anni, hanno consentito di raccogliere frutti straordinari per quanto riguarda la convivenza tra i suoi Stati membri e, contemporaneamente, di mantenere o riportare la pace in contesti di guerra civile, attraverso apposite missioni civili e militari, dentro e fuori l’Europa. Per questi innegabili risultati l’Unione europea ha ottenuto persino il Nobel per la pace nel 2012. Essa non ha, però, almeno al momento, le caratteristiche essenziali per gestire la difesa da una minaccia militare. Non ha, in primo luogo, un suo esercito. I tentativi, più volte intrapresi, di creare forze militari comuni sono tutti caduti in un nulla di fatto. Non ha, soprattutto, un sistema decisionale rapido, se non immediato, indispensabile per prevenire o gestire un conflitto armato. Infine, i suoi Stati membri hanno caratteristiche, dal punto di vista delle rispettive forze armate e armamenti, e approcci del tutto eterogenei rispetto alla difesa militare. Si va dalla Francia, con la sua force de frappe costituita da testate nucleari, a numerosi Stati dotati di forze armate poco più che simboliche fino a quattro Paesi dichiaratamente neutrali (Austria, Irlanda, Malta e Cipro).

 

Oggi, di fronte alle reiterate dichiarazioni (o minacce) di disimpegno degli Stati Uniti rispetto ai tradizionali alleati europei, gli Stati membri dell’Unione europea si trovano di fronte alla necessità di compiere una scelta che hanno a lungo rinviato: costruire o non costruire una vera difesa comune europea? La proposta della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, denominata ReArm Europe e che prevede un investimento in armamenti dell’iperbolica cifra di 800 miliardi di euro, non sembra, in realtà, una risposta adeguata perché privilegia, ancora una volta, il riarmo delle forze armate dei singoli Stati membri e lo fa senza passare dal voto del Parlamento europeo. Riempire gli arsenali o, comunque, accrescere l’indipendenza tecnologica può forse mitigare il disimpegno degli Stati Uniti ma certo non superare e le forti criticità insite nell’attuale sistema di difesa e, soprattutto, di governance dell’Unione europea. Avremo Stati europei più armati e, perciò, forse anche più bellicosi, ma continueremo a non avere una difesa comune e istituzioni europee in grado di gestirla.

 

In questo quadro, certo non incoraggiante, è bene ricordare che lo scopo che l’Unione europea si prefigge, ai sensi del suo trattato istitutivo, è quello di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli. È bene, in questi giorni decisivi per il futuro dell’Unione europea, che i cittadini ne siano consapevoli e lo ricordino ai rispettivi governi.

 

 

Michele Vellano è professore ordinario di Diritto dell’Unione europea – Università di Torino