Da Solo. Un bambino di fronte alla guerra

L’intenso ultimo romanzo di Novita Amadei

 

Pochi giorni fa, il 24 febbraio, i media hanno ricordato l’anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. Sono già passati tre anni e la situazione è in stallo. Ogni tentativo di fare progressi verso una pace giusta e duratura si arenano, come accade nelle guerre ibride, dove si utilizzano le armi insieme a disinformazione, fake news, cyberattacchi, in un clima di sospetto e di allarme continuo che impediscono fiducia e collaborazione. Se il 24 febbraio 2022 è considerato dagli ucraini un aggravamento di un conflitto, che si era già manifestato in altre forme dal 2014, non si può che concordare con il tentativo di riaffermare il ripristino del diritto internazionale e il rispetto delle regole nei negoziati, pena la disintegrazione di ciò che era stato pazientemente creato all’indomani della Seconda guerra mondiale in Europa, cioè il valore della collaborazione comunitaria e delle diversità riconciliate.

 

Che senso ha dunque riflettere su empatia e compassione, in tempo di guerra?

 

Il nuovo romanzo di Novita Amadei, Da solo (Neri Pozza 2025) affronta il tema, raccontando la vicenda di un bambino costretto dalla madre a mettersi in salvo da solo, salendo su un treno per Bratislava nella affollatissima stazione di Zaporizzja. Jarek ha solo 10 anni, la destinazione è scritta a penna sulla mano, nello zainetto ci sono le pagelle perché è bravo in matematica, e nella mente ha tanti giochi di immaginazione. L’Autrice, che da molti anni opera in progetti con migranti e rifugiati, ne ha ricostruito la vicenda seguendo un doppio registro: quello del romanzo inventato a cui si aggiunge un breve reportage in cui la scrittrice va in cerca dei suoi interlocutori per ascoltare quali significati e quali sacrifici hanno comportato le scelte, pur di sopravvivere. Nel rispetto della verità finzionale e di quella reale che si intrecciano, diventando risorsa una per l’altra, in un gioco di immaginazione che coinvolge lettori e lettrici. È il coraggio di una donna che è anche madre e figlia, è il coraggio di un bambino che è costretto a crescere in fretta.

 

L’Autrice ha sviluppato il suo talento a partire da un gruppo di ricerca che nel 2003-2006 all’OIM-Organizzazione internazionale delle migrazioni di Roma inventò l’approccio etno-sistemico-narrativo nella formazione per terapeuti transculturali e operatori psicosociali. È lì che la incontrai per la prima volta. Da allora siamo diventate amiche e siamo rimaste in contatto, nonostante le distanze geografiche, gioendo insieme per l’uscita di ogni suo nuovo libro (ricordo a Pralibro ma anche a Pinerolo le presentazioni di Dentro c’è una strada per Parigi e di Finché notte non sia più, sempre per Neri Pozza).

 

Da solo si legge d’un fiato per la scorrevolezza del flusso narrativo che alterna i punti di vista dei diversi personaggi coinvolti nella vicenda drammatica. È una fiaba onirica e trasformativa – una storia di guarigione – per lo stile di scrittura ma anche per la capacità dell’Autrice di chinarsi su ogni personaggio empaticamente e intersoggettivamente, al fine di raccontare quel dialogo reale e immaginario che sempre accompagna le situazioni difficili, nelle microsituazioni quotidiane. A dimostrazione di come il conflitto si sia insinuato nella società, la storia comincia con il gioco della guerra con cui i bambini si intrattengono prima che essa sia scoppiata per davvero, quando ancora un adulto può intervenire per fermarne l’insensatezza. Dopo, è troppo tardi e occorre solo affrontare l’emergenza con tutti i limiti e le difficoltà ma – talvolta – anche con le risorse positive che emergono inaspettatamente, nelle situazioni disperate, attraverso le relazioni con chi è diverso o con chi non si conosce. Come avviene nel lungo viaggio in treno per il piccolo Jarek.

 

In televisione la guerra in Ucraina sembra solo un gioco di cattivo gusto per questioni territoriali, mentre nel Paese la popolazione civile sperimenta condizioni di vita difficilissime, c’è la paura dello stress post-traumatico nelle famiglie, si contrasta la diffidenza che si insinua per le atrocità subite, si tenta di arginare la disperazione – sperando contro speranza – in un futuro che si allontana sempre più, con un tessuto comunitario da ricostruire, relazioni umane da salvaguardare, una nuova generazione da proteggere, di qua e al di là dei confini. Ci sono da ricostruire case, scuole, ospedali, biblioteche, teatri, cinema, centri sociali, e invece siamo fermi ai giochi geopolitici, alla volontà di dominio e al bullismo di leader che continuano a ritardare il momento in cui tutto potrà ricominciare.