
Quando il confine fra ordine e abuso si fa sottile
Il ritorno sugli schermi del racconto crudo e controverso della Celere, fra violenza, vendetta e ricerca della verità, nella serie “Acab”
«Celerino, figlio di p…» il ritornello che in molti, inutile negarlo, conosciamo, sentito in una qualche manifestazione (o nei vari film), rivolto agli “sbirri”, alla Polizia reparto celere in particolare. In “Acab – la serie”, come già nel film omonimo di Sollima, capitolo primo della trilogia della Roma criminale (seguito da “Suburra” e chiuso dal cupissimo “Adagio”) le quattro parole vengono, in un ribaltamento di ruoli, cantate proprio dai “celerini”. A.c.a.b. (acronimo di “all cops are bastard”, tutti i poliziotti sono bastardi, diventato famoso in Inghilterra negli anni ’70) torna a essere protagonista sugli schermi a distanza di 13 anni dal film che fece molto discutere e non piacque alle forze dell’ordine, così come il libro di Carlo Bonini che ha ispirato il film di Sollima con Giallini, Favino, Nigro, Sartoretti e Diele che racconta le gesta, non sempre nobili, di un reparto della celere di Roma.
Se nel film pesavano ancora a distanza di 10 anni (e pesano ancora oggi) le violenze di Genova e del G8, nella serie lo spunto viene preso da un altro scenario dove lo Stato, rappresentato dalle Forze dell’Ordine, negli ultimi 40 anni, si è scontrato con il popolo, con la gente comune. E cioè la val di Susa, con la lotta contro il Tav. Anche qui ogni tanto emerge il ricordo che fa ancora tremare i polsi della macelleria messicana della Diaz, ma il casus belli che alimenta la serie è una bomba di chiodi che ferisce, quasi a morte, il caposquadra di Roma1 e lo costringerà sulla sedia a rotelle. La vendetta è immediata e si sfoga con tutta la frustrazione ben descritta da Pasolini nella celebre “Io sto coi poliziotti”: «Umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)» contro un gruppo di manifestanti, con gravi conseguenze per uno di loro. Poi l’inizio del percorso di ricerca della verità (tutta) da parte dei magistrati torinesi e la cancellazione di ogni prova, fisica (dai manganelli alle bodycam) e psicologica del reparto. Si torna alla vita normale di caserma e servizi, in un mondo di violenza e spesso ai limiti della legalità. Si scava molto anche nelle vite private dei poliziotti e della poliziotta; vite private che si riflettono ovviamente nella vita di caserma. Il privato e il lavoro (i colleghi) sono divisi da un confine sottilissimo che a volte scompare del tutto.
Il finale è aperto, tutto è pronto per la stagione 2. Gli spunti sono tanti. Una riforma sostanziale della Polizia sarebbe necessaria per tutelare istituzione e cittadini. Che a dirla tutto non dovrebbero temere se fermati e portati in caserma. Non dovrebbero temere neppure se in torto marcio perché autori di violenze oltre la legge. In questo caso ci sarà un processo e il reo pagherà. E allo stesso modo deve pagare anche dall’altra parte chi commette un reato, un abuso di potere, perché in quel momento rappresenta la Stato. E allora sì a un potenziamento dell’arma, a turni meno massacranti, ma anche a una formazione per la gestione dell’ordine pubblico (dopo Genova si dice che le cose siano cambiate?), ai numeri sui caschi (come in altri paesi). La Polizia insomma, da Acab, non ne esce benissimo.