Aiutare la montagna? O è lei che aiuta noi?

Una riflessione con Paolo Cognetti alla sua prima esperienza da regista; «Fiore mio» racconta del rapporto, profondo, con la montagna e delle risposte che si possono trovare nelle terre alte e degli scenari futuri

«Non siamo noi a dover salvare le montagne, sono le montagne che possono salvare noi». Una frase che racchiude molto del modo di vedere la vita e il mondo di Paolo Cognetti, scrittore, autore del conosciuto libro Le otto montagne (premio Strega nel 2017, da cui è stato tratto un toccante film) e anche regista con Fiore mio, uscito nelle sale a fine novembre.

Chi conosce Cognetti sa che la montagna è la protagonista centrale dei suoi racconti che possono essere racchiusi nelle pagine di un libro o nelle riprese di un film. Cita spesso Mario Rigoni Stern, con cui si possono trovare molte analogie e alcune differenze. Perché il complesso mondo della montagna visto da chi ci nasce e vive (come l’asiaghese Rigoni) è diverso da chi si avvicina da un contesto urbano (come quello meneghino di Cognetti). Ma il legame forte e indissolubile è comune.

 

Per Paolo Cognetti mettersi dietro a una macchina da presa è un “ritorno” a una grande passione, fatta anche di studi. «Il mio è stato un tentativo di fare un qualcosa con meno parole possibili, in particolare poche parole mie; avevo previsto un voice over, ma mi sono accorto che avrebbe distratto le persone, quindi ho preferito dar voce alle immagini, ai suoni e alle voci di altre persone che incontro durante il film. Scrivere un libro è un esercizio in cui la solitudine è la protagonista mentre per girare questa pellicola ho incontrato, per ovvi motivi, molte persone e si è lasciato molto spazio all’improvvisazione, seguendo soltanto un programma di massima».

 

Fiore mio permette molte letture su aspetti diversi fra loro, non dà una soluzione univoca alle questioni che vengono a galla. Come a esempio lo scioglimento dei ghiacciai, elemento scatenante del viaggio di Cognetti che si ritrova senza acqua nella sua casa di montagna, un evento mai visto prima. «Il futuro ci riserva una montagna priva di ghiacciai, questo mi pare ormai un dato assodato. Dove prima c’erano i ghiacci perenni arriveranno gli alberi, i paesaggi cambieranno ma saranno sempre bellissimi, la natura si adatterà, e chissà che cosa succederà ai corsi d’acqua: noi siamo sicuramente quelli che faticheranno maggiormente ad adattarci ai cambiamenti».

 

Per te – incominciamo così la nostra conversazione – la montagna è salvifica, come hai detto in un passaggio del film, ha una capacità terapeutica. La montagna è rifugio: infatti nel percorso che fai tocchi (e vivi) in questi avamposti incastonati in paesaggi che grazie alle bellissime riprese, diventano protagonisti, confrontandoti con gestori molto diversi fra loro. «Nella meditazione buddista si parte dalla parola “rifugio” e di alcune letture diverse del concetto. Il primo rifugio è Budda, il maestro; il secondo è la via, il percorso e infine l’ultimo è la comunità dei praticanti. E nel film incontro tutti questi tre aspetti sotto forma di una Guida alpina conoscitrice dei luoghi, il camminare lungo sentieri e ghiacciai e le persone che incontro, appunto nei rifugi (ma non solo). L’alta montagna è per me un tempio, nelle terre alte trovo una dimensione spirituale che più in basso, dove la presenza dell’uomo e della sua mano è invadente, non trovo. Per Rigoni Stern pregare era andare nel bosco, per me è salire in alto dove non c’è traccia dell’uomo».

 

Il confronto con gli elementi naturali è un altro punto di svolta nel film. Le immagini di ghiacciai e di acqua, il cielo terso, il fuoco acceso in un prato, i paesaggi rocciosi e l’aria “sottile” delle alte quote sono molto forti. «Le cinque bandiere buddiste rappresentano i cinque elementi: terra, acqua, aria, fuoco e cielo. Per me sono casa, a Milano vedo solo qualche albero e un po’ di cielo a volte, e l’acqua delle fontanelle. Toccare il legno, camminare a piedi nudi in un prato, accendere un fuoco… questo per me è casa».

 

Uscendo invece un po’ dalla traccia del film, ma rimanendo sempre in montagna, è chiaro un “ritorno”, sia di giovani sia di stranieri. «Lo vedo anche io qui sotto il Monte Rosa: arrivano soprattutto dall’Olanda, sono giovani, con una solida base culturale e con buone condizioni economiche generali che permettono loro di acquistare un rudere e ristrutturarlo. Portano una ventata di novità, portano uno sguardo diverso, altre culture che hanno con sé stupore e riconoscenza per ciò che si trovano davanti (e che spesso non ci accorgiamo di avere). I giovani italiani invece molti mollano all’insorgere delle difficoltà: la burocrazia, i rapporti con i locali, alluvioni, siccità…».

Può essere, la vita in montagna, un modello alternativo a quello ormai sempre più in crisi, della vita nelle grandi metropoli? «Assolutamente sì. Ma servono servizi, quelli di base (scuole, trasporti, Internet, sanità…)».