Chiese svizzere riflettono sul calo del numero di pastori
Le chiese riformate cercano strategie per compensare i minori iscritti alle Facoltà teologiche. Un ruolo quello del ministro di culto che nel tempo sta cambiando
All’inizio dell’anno accademico, gli occhi delle Chiese riformate svizzere di lingua francese sono rivolti ai corsi di teologia di Losanna e Ginevra. La loro preoccupazione? Scoprire se i loro ranghi basteranno a compensare l’annunciata carenza di pastori, in seguito al pensionamento dei pastori baby boomer, come vengono definite le persone nate indicativamente dal 1946 al 1964, gli anni della ricostruzione post bellica e della crescita economica. Per l’anno accademico 2024-2025, il numero dei nuovi studenti iscritti a teologia è pari a otto, distribuiti equamente tra Losanna e Ginevra. Un organico al quale si aggiungono venti nuovi iscritti all’offerta a distanza. In termini di diplomi, l’anno precedente avrà convalidato sei master (cinque a Ginevra, uno solo a Losanna) – una qualifica necessaria per impegnarsi nella formazione pastorale in senso stretto.
Un report del giornale svizzero francese Réformés analizza la situazione: «La situazione è presa molto sul serio dalle Chiese», afferma Jean-Baptiste Lipp, presidente della Conferenza delle Chiese riformate di lingua francese. Tanto più, aggiunge, in quanto «un numero significativo di studenti di teologia abbandonano, strada facendo, un progetto pastorale».
Per quanto riguarda le chiese cantonali, la mancanza di successione si fa già sentire. «La nostra Chiesa deve adattarsi chiaramente per far fronte a questa carenza di pastori, che constatiamo ormai da tempo», indica Laurence Bohnenblust-Pidoux, consigliera sinodale della Chiesa evangelica riformata del cantone di Vaud. «Si tratta di prenderne atto e trovare soluzioni per soddisfare le esigenze sul campo».
«Vediamo che è sempre più difficile trovare candidati per compensare le partenze» testimonia anche Stephan Kronbichler, presidente della Chiesa evangelica riformata del Vallese. Che aggiunge: «Per un posto da ricoprire all’inizio del 2026, non abbiamo ricevuto finora una sola candidatura, tre mesi dopo la pubblicazione dell’offerta di lavoro».
La stessa constatazione arriva da parte della Chiesa evangelica riformata del cantone di Neuchâtel, come attesta il suo presidente Yves Bourquin: «Le comunità spesso non hanno più la scelta tra più candidati e si ritengono felici quando arriva una candidatura adeguata». Bourquin segnala anche «una certa concorrenza tra le Chiese cantonali, che si trovano tutte nella stessa situazione». Descrivendo la sua Chiesa come «non competitiva in termini di salario dei pastori rispetto alle Chiese finanziariamente legate allo Stato», osserva che «i pastori Neuchâtel a volte scelgono di prendere posto in una Chiesa vicina».
Beneficiando di uno status molto apprezzato in passato, la professione di pastore non sembra più essere un sogno per le generazioni più giovani. «Il mondo professionale si è evoluto molto: spesso non esercitiamo più la professione che abbiamo imparato all’uscita dalla scuola», afferma Pierre-Philippe Blaser, presidente della Chiesa evangelica riformata del cantone di Friburgo. In effetti, la lunga formazione per giungere al pastorato può spaventare «le persone che desiderano mantenere una certa versatilità per il futuro della loro carriera». Jean-Baptiste Lipp constata anche, con altri dirigenti, «che i giovani non vogliono più assumere realmente il ruolo di pastore, divenuto proibitivo per molti». Cita anche come prova che «sempre più pastori preferiscono ricoprire incarichi di cappellano (negli ospedali, nelle carceri, ecc.) piuttosto che in una parrocchia».
In questione, secondo Stephan Kronbichler, anche «la complessità della professione di pastore e le condizioni di lavoro». E propone «un parallelo con la carenza di medici di famiglia generalisti, i quali devono accettare anche un impegno professionale che spesso incide sulla loro vita privata e familiare». Tuttavia, sottolinea Pierre-Philippe Blaser, «la generazione Z è molto attenta alla qualità della vita, in particolare all’equilibrio tra vita privata e professionale».
Per rispondere alle esigenze delle loro istituzioni, alcune Chiese si sono aperte ad altri profili creando un nuovo status, battezzati a seconda dei cantoni “ministero emergente”, “responsabile del ministero” o addirittura “facilitatore della Chiesa”. Queste posizioni riscuotono da diversi anni un vero successo, generando un certo numero di candidature spontanee sia nel Canton Vaud che in quello di Ginevra.
«Negli ultimi anni i dirigenti ministeriali hanno fatto un ingresso forte apportando competenze specifiche in determinati settori, come ad esempio le questioni LGBTIQ+ o la gioventù», attesta Chantal Eberlé, presidente della Chiesa protestante di Ginevra. «Siamo sorpresi nel constatare l’interesse che le professioni ecclesiali continuano a suscitare, contrariamente a ogni previsione».
Anche la vodese Laurence Bohnenblust-Pidoux evoca l’interesse per queste nuove “professionalità” per le Chiese, «gli animatori delle Chiese provenienti da numerose professioni sociali, sanitarie e pedagogiche». «In genere assumono un incarico di cappellania, più raramente parrocchiale», precisa ancora Claudia Bezençon, referente professionale all’interno della Chiesa del Vaud. «L’interesse espresso è spesso quello di impegnarsi professionalmente nella Chiesa, senza dover entrare in un ministero consacrato».
Dalla parte dell’Unione sinodale Berna-Giura-Soletta, la presidentessa Judith Pörksen Roder confida che le sue Chiese «stanno valutando anche la possibilità di creare una nuova professione», pur insistendo sul fatto che «è necessario allo stesso tempo fare tutto affinché gli studi lunghi di teologia e di pastorale non perdano la loro attrattiva e conservino la loro importante funzione nella Chiesa grazie ad una formazione di qualità». Una preoccupazione condivisa anche da Pierre-Philippe Blaser che chiede «che questi nuovi profili lavorativi non si integrino in una semplice logica di intercambiabilità».
Sorge infatti una domanda: queste professioni ecclesiali più accessibili non rischiano, alla fine, di deviare le vocazioni di persone che altrimenti avrebbero intrapreso il pastorato? «Questa è davvero una grande preoccupazione», afferma Stephan Kronbichler. «Stiamo attenti a non svalutare la formazione dei pastori e dei diaconi, che è lunga e impegnativa. Ci preoccupiamo quindi di non aprire una strada a buon mercato, ma cerchiamo piuttosto di offrire l’opportunità di lavorare per la Chiesa a persone per le quali questa strada è immediatamente esclusa».