L’attesa frustrata tra sconfitta e opportunità

Questo periodo di Avvento ci sollecita a capire quale valore diamo alle nostre aspettative: aprirsi a una promessa significa anche saper vivere con fiducia verso il domani

E poi ci sono quelle volte, e sono numerose, in cui ci ritroviamo lì a bordo strada, travolte, travolti dal colpo d’aria dell’occasione persa, della parola detta troppo tardi, del treno che ormai è passato. Rimaniamo lì, con il portone che ci è appena stato chiuso in faccia, lasciandoci intuire il profumo della festa, delle sue luci, delle persone che avremmo voluto incontrare, con cui avremmo voluto confrontarci. Rimane quel sapore di polvere in bocca e nell’anima, quell’amaro della delusione, che già sappiamo diventerà sapore di rimpianto, rivendicazione, di ottime spiegazioni e legittime scuse. Esiliate, esiliati nella terra dei verbi al condizionale passato.

 

Che la delusione di un’aspettativa ha sapore, odore, consistenza. Tanto più intensi quanto più l’aspettativa in questione nutriva i nostri passi, la nostra storia, i nostri progetti.

E il colpo d’aria ci rende foglie secche, strappate al loro ramo, alla linfa. Il colpo d’aria ci toglie il fiato. Ci trasporta. A volte verso la rabbia, l’amarezza, l’indignazione e la colpevolizzazione verso noi stesse, verso l’altro, verso “il sistema”, verso qualunque cosa si muova ed esista nei nostri paraggi e che il nostro furore avrebbe voglia di spazzare via. Altre volte verso l’abisso di una sempre maggior delusione che copre ogni cosa con un manto di ovattata indifferenza, di un ostentato o ancor più temibile intimo, irreversibile disinteresse nei confronti di ogni persona, di ogni esistenza, di ogni cosa. 

Ma succede, a volte, che la “mazzata” porti aria nuova. Che porti consapevolezza, che sveli l’illusione e riveli l’inganno. Succede, e assieme alla curiosità è la base di ogni cammino di conoscenza, che l’errore, la fragilità, il non-previsto ci aiutino e ci indichino il cammino per aggiustare il tiro, ci portino a fare il passo che fino a quel momento abbiamo guardato con diffidenza, nascosto sotto il tappeto dell’“e se poi…?”.

 

È la differenza tra soglia e limite. La soglia delimita, ma può essere spostata, può essere porta aperta o chiusa, invito ad entrare o ad uscire, a iniziare o terminare. O a passare, semplicemente. Il limite, una volta superato, porta disastro oppure decrescita. Non si può andare oltre, non è possibile eliminarlo, un limite. Da lì in poi, è esplosione oppure discesa, ritorno, conversione. O crollo, a seconda della forza e dell’impatto. 

Arriviamo, e la delusione spesso funziona come una violenta spinta in questa direzione, verso la linea di demarcazione di ciò che siamo, di chi-siamo-nel-mondo. La linea che finisce e de-finisce, il tratto che separa, e separando può anche unire, perché ci aiuta a riconoscere “io” e “tu”, “noi” e “voi”. In tempi di narcisismo patologico universale e culto dell’efficacia, di angoscia da consumo e comunità più virtuali e da schermo che reali e vissute, “io” è smarrito e deluso, si aggira in continua ricerca di approvazione, di relazioni-specchio nelle quali non riconoscere l’alterità ma sé stesso – il riflesso di se stesso.

 

Ben venga, allora, la delusione. Ben venga la crisi dei nostri parametri, delle misure predefinite, dei “si è sempre fatto così”. E non è un elogio al caos e alla deresponsabilizzazione, al contrario. Si tratta, piuttosto di un “disimpegnato impegno”: della scelta, dell’esercizio di lasciarsi sorprendere, dell’andare a cercare il luogo in cui il seme che avevamo lanciato è effettivamente germogliato, che non sempre corrisponde con il terreno che avevamo preparato. Si tratta di andare a cercare la storia del pane che avevamo lasciato andare sulle acque e farne tesoro, di chiedere vasi che i nostri vicini non utilizzano più e scoprire che possono essere riempiti di olio nuovo. Si tratta di liberarci dagli stereotipi di chi è “vincente” e chi “perdente”. Di interrogare noi stessi, noi stesse, e chiederci se quella fosse davvero l’unica strada, la scelta da nutrire, l’investimento necessario. 

Possa la “bordata” darci modo di distinguere tra il Sogno, la Promessa, e il percorso che abbiamo pensato di fare per raggiungerlo. 

 

In molti contesti, da sempre, si cerca la chiave per vivere una vita “serena”. Tra le numerosissime voci e vuoti clamori, alcuni concetti mi sembrano particolarmente interessanti per il nostro tempo: quello di risonanza, di cui è porta-parola il sociologo Hartmut Rosa, mi sembra tra i più coerenti e in dialogo con le nostre vite, i nostri interrogativi. Tra la persona e il mondo ci sono degli “assi di risonanza”, diversi per ognuno e per ogni cultura, che vibrano e portano senso, ci fanno vibrare. 

Anche un’attesa, un’aspettativa delusa può contribuire a questa scoperta. A volte un “basta” che noi non osavamo dire ci libera, scopriamo, da un cammino che non sentivamo più nostro. E nel pieno del colpo d’aria della porta che sbatte, può darsi, intuiamo che ci sono altri percorsi, altri orizzonti, altri modi di risuonare, trovando e condividendo il senso di ciò che siamo e facciamo. 

 

In conclusione al suo commento al Credo, Karl Barth scriveva: «La speranza della nostra resurrezione e della vita eterna sarebbe vana, se non fosse prima di tutto speranza in Lui, e ciò non perché Egli esaudisce i nostri desideri, ma perché compie la sua propria volontà divina in noi» (Credo, Labor Et Fides, 1969, p. 211). Non i nostri desideri, ma la volontà divina nelle nostre vite. È questione, allora, di senso della vita, di vocazione, di scelte “in risonanza”. Ghali, giovane cantante di origini italo-maghrebine e islamiche, riformula, molto semplicemente: «Se non entro, ballo fuori» (Wallah, 2022).