Il dilemma morale di Clint Eastwood
Nel suo nuovo film il regista americano ci mette alla prova, trasfigurando un brutale omicidio in un dramma etico: sappiamo che cosa è giusto fare, ma saremmo in grado di farlo?
Che cosa farei io al posto del “giurato numero 2”? Questa è la domanda angosciosa che ci lascia il nuovo film di Clint Eastwood.
Tutta la vicenda si dipana nell’intreccio tra il susseguirsi delle fasi processuali (le testimonianze, le arringhe, il lavoro della giuria popolare, il verdetto) e il maturare di un profondo dilemma morale nei due protagonisti (due efficacissimi Nicholas Hoult e Toni Collette): Justin Kemp, il giurato, ma anche l’avvocata della pubblica accusa, in corsa per la carica di procuratore distrettuale, un connubio tra ambito giudiziario e politico con importanti ripercussioni.
Che cosa sarebbe più “giusto”: far prevalere il senso di legalità, distruggendo una stabilità di vita faticosamente raggiunta, come scopriamo man mano, ricomponendo i pezzi di due esistenze spezzate da traumi pesanti? Oppure, per proteggere quella vita che sono ormai tre vite, mandare in prigione un “innocente” – innocente rispetto al reato in questione, ma certo non in senso assoluto (del resto, chi lo è)?
Fin dall’inizio noi spettatori sappiamo come sono andate le cose e la frase pronunciata da Justin Kemp in una confidenza (che si trova anche nel trailer, quindi non è uno scoop), quando dice che quello che ha investito con l’auto «Forse non era un cervo», insieme a una serie di altri indizi, ci toglie ogni illusione.
Certo, speriamo fino all’ultimo che non sia andata così, che il finale ci tolga dall’incubo in cui scendiamo sempre più a fondo insieme al “giurato numero 2”. Il dialogo e il silenzioso scambio di sguardi tra i due protagonisti dicono molto, pur lasciandoci con il fiato sospeso.
I giochi di sguardi accompagnano tutto il film, a volte sostituendo le parole, e aggiungendo profondità incredibile a un plot che starebbe in cinque righe di cronaca nera. Proprio qui sta la bravura del regista; per esempio, nel corso del film si ripropone più volte la scena che precede e prepara il reato (la morte violenta di una ragazza, di cui è accusato il fidanzato), con minime variazioni, a seconda del personaggio che la rievoca. Di volta in volta, il focus è il fidanzato violento e criminale, la ragazza ubriaca e molesta, i due giovani innamorati in una serata come tante altre… Dove sta la verità? Quei piccoli dettagli divergenti sembrano suggerire che non c’è una verità, anche se il “giurato numero 2” sa benissimo qual è, e man mano si rende conto di quali saranno le conseguenze del suo fare (o non fare) giustizia.
Questo è un elemento centrale, qui come in molti altri film di Clint Eastwood: la responsabilità dell’azione del singolo che si riflette sui destini di altri, il dilemma morale “giusto/sbagliato”, termini che non sono separati da una linea netta, ma più spesso costringono a scendere a compromessi, o comunque a fare qualcosa di “scomodo” per un interesse superiore che va oltre se stessi.
In questo caso, non sappiamo esattamente come andrà a finire, ma possiamo fare delle supposizioni. E intanto, interrogarci insieme a Justin Kemp su quanto il nostro fare o non fare potrebbe portarci a perdere, o meno, la nostra anima. La questione non è posta in questi termini nel film, ma credo ne sia il nodo centrale, se lo guardiamo da credenti.