«Nonostante tutto non c’è alternativa al dialogo»
Le parole del pastore Riad Jarjour, siriano, che vive da molti anni in Libano
Per un incontro zoom sulla situazione in Libano, organizzato dal gruppo informale “Dallapartediabele” lo scorso 15 novembre, è intervenuto anche il pastore Riad Jarjour, siriano, che vive da molti anni in Libano. Jarjour è stato segretario generale del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente, fortemente impegnato da anni sul tema della pace e del dialogo interreligioso, ma anche sui temi dell’immigrazione, e per questo conosce e sostiene il Progetto Mediterranean Hope della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Oggi è presidente del Forum per lo sviluppo della cultura e del dialogo.
Nel suo intervento Jarjour ha parlato della condizione dei cristiani in Libano, di come vivono questo momento di guerra, del dibattito al loro interno e nel paese, ma sopratutto dell’importanza del dialogo in questo momento di crisi per la ricerca di una soluzione che sia valida non solo per tutti i libanesi, ma per l’intero Medio Oriente.
Qual è oggi la situazione della vita quotidiana?
«Saluti dal Libano! Vivere oggi in Libano vuol dire vivere contemporaneamente due diverse e contraddittorie realtà. Da un lato, viviamo il puro orrore di vedere il nostro paese e i nostri vicini soffrire sotto il peso della guerra: ogni notizia, ogni esplosione lontana, ci ricorda le distruzioni in corso, insopportabilmente vicine alle nostre case.
Dall’altro lato, dobbiamo continuare a vivere, lavorare e fingere di vivere la vita di sempre, anche se ciò significa reprimere la paura e il dolore solo per riuscire a sopravvivere ogni giorno.
È praticamente una vita surreale, dove la vita quotidiana e l’orrore sono strettamente intrecciati. Lavoriamo, ci incontriamo con gli amici e cerchiamo di dare ai nostri figli un senso di stabilità, pur sapendo che qualsiasi parvenza di “normalità” potrebbe essere infranta in un istante. La resilienza che cerchiamo di vivere spesso sembra un’illusione che dobbiamo mantenere solo per riuscire a sopravvivere. Per questo proviamo una profonda stanchezza collettiva perché vivere queste due realtà ci rende schizofrenici ed sempre più estenuante. Le persone vivono una tensione interiore, sono consapevoli di trattenere l’ansia e il terrore, non sapendo per quanto tempo potranno resistere.
Viviamo in questa assurda condizione e ci chiediamo cosa significhi esistere quando tutto intorno a noi sembra andare in pezzi».
In Libano convivono religioni differenti: quanto è difficile oggi proseguire nel dialogo?
«La gente mi chiede dei cristiani in Libano. I Cristiani in Libano vivono come tutti gli altri abitanti. Ma i cristiani in Libano, in questa situazione di crisi provano una ulteriore paura, non solo per la violenza ma anche per quello che tutto ciò può significare per il futuro del Libano. Il paese è sempre stato la patria di un delicato equilibrio religioso, che consente a un mosaico di comunità di coesistere. Questo equilibrio è cruciale; e ciò che rende unico il Libano nel mondo e in una regione dove in molti luoghi esplodono conflitti basati su visioni settarie. C’è una profonda paura che il Libano possa perdere questo equilibrio, diventando non uno stato forte e unito di cittadini uguali, ma piuttosto un paese frammentato in isole composte da minoranze, di comunità che si aggrappano alle loro diverse identità per sopravvivere.
Sempre la gente mi chiede del dialogo. Mi dicono: tu hai lavorato per il dialogo per molti anni, anzi per tutta la vita ti sei dedicato al dialogo. Ma cosa ha prodotto questo dialogo? Guarda in che situazione siamo oggi: la gente lotta uno contro l’altro e non va d’accordo. Che tipo di dialogo è mai questo..? Io sempre rispondo che non c’è alternativa al dialogo. Si, l’attuale conflitto, la guerra, ha reso il dialogo incredibilmente difficile. Il problema principale è la profonda connessione tra politica e religione in Libano, dove le azioni dei vari attori politici e militari sono spesso viste come espressione di intere comunità religiose. Questa dinamica alimenta un pericoloso malinteso: molte persone non riescono a distinguere tra le azioni dei leader politici o dei gruppi armati e i normali cittadini che fanno parte di queste comunità. Di conseguenza intere comunità vengono ingiustamente accusate per le azioni di pochi, e l’attuale situazione viene esasperata da questa tendenza.
Inoltre all’interno della comunità cristiana c’è una divisione su come comprendere e come rispondere alla situazione attuale. Alcuni sostengono un approccio più nazionalistico, mentre altri premono per una maggiore neutralità o si concentrano su specifici bisogni del Libano. E inoltre anche tra cristiani e altri gruppi, il dialogo è complicato dalle diverse valutazioni sulla guerra e sulla politica regionale. Così emergono con più forza le diverse identità, appartenenze e le diverse strategie per sopravvivere. Anche quelli di noi che sono impegnati nel dialogo interreligioso con grande convinzione, devono combattere contro la paura e l’incertezza che rendono difficile la costruzione di ponti».
Vede soluzioni per questa attuale drammatica situazione?
«Per uscire da questa situazione di guerra, violenza, orrore occorre una strategia incentrata sull’unità libanese sulla sovranità del Libano, bisogna impegnarsi per costruire una vera pace. Molti credono che il Libano debba prendere le distanze dai conflitti regionali e ristabilirsi come nazione sovrana che dia priorità al benessere del proprio popolo.
In questo frangente i cristiani, in particolare, potrebbero svolgere un ruolo fondamentale nel sostenere l’ipotesi di un Libano indipendente, libero da influenze politiche e militari esterne. Va sostenuta l’idea di un Libano forte, indipendente, radicato nella cittadinanza piuttosto che nella fedeltà settaria, un Libano che offra uguali diritti e protezioni a tutti i suoi cittadini, indipendentemente dall’affiliazione religiosa. E questo si può fare sostenendo questi principi nel dibattito pubblico collaborando con i leader di altre comunità su questi obiettivi. Questa strategia aiuterebbe ad aprire la strada a un Libano resiliente, inclusivo e in grado di superare i conflitti settari, una nazione in cui tutti i libanesi possano trovare sicurezza, appartenenza e speranza per il futuro».
Il pastore Jarjour in visita agli uffici di Mediterranean Hope a Roma nel 2019