Io speriamo che me la cavo

Le dimissioni di Justin Welby da arcivescovo di Canterbury sono le ultime di una serie che sta colpendo le chiese protestanti. Serve una presa di coscienza collettiva

 

Houston abbiamo un problema.

 

Dunque, dopo le anticipazioni di ieri, sono giunte le clamorose dimissioni di Justin Welby da arcivescovo di Canterbury, capo religioso della Chiesa d’Inghilterra e primus inter pares della Comunione anglicana, che raggruppa oltre 85 milioni di fedeli nel mondo. Welby era finito nell’occhio del ciclone in questi ultimi giorni dopo che una commissione indipendente chiamata a valutare l’operato in tema di abusi sessuali della Chiesa d’Inghilterra ha concluso che l’arcivescovo «poteva e avrebbe dovuto» denunciare le accuse alle autorità un decennio fa, quando venne a conoscenza per la prima volta di una losca vicenda di violenze.

Il caso è quello dell’avvocato John Smyth che per molti anni ha gestito dei campi estivi per giovani evangelici. Smyth è accusato di una lunga sequenza di violenze a danni dei minori, prima nel Regno Unito e poi in Zimbabwe e Sud Africa. Welby era a conoscenza della vicenda almeno dal 2013, ma probabilmente anche in precedenza. La mancata denuncia ha consentito a Smyth di perpetrare le sue tragiche azioni.

 

Si tratta probabilmente ad oggi delle dimissioni dovute al tema degli abusi nelle chiese della figura di più alto grado nel panorama religioso mondiale. Quanto il tema stia colpendo nel profondo la Chiesa cattolica lo abbiamo imparato a conoscere finalmente in questi ultimi anni. Ma uno dopo l’altro episodi stanno scuotendo anche le chiese protestanti.

In Europa per rimanere soltanto agli ultimi anni ci sono state le dimissioni dei leader di quelle che sono probabilmente le due principali chiese riformate storiche europee. Prima

 del presidente della Chiesa protestante svizzera Gottfried Locher accusato nel 2020 di comportamenti inappropriati nel contesto del rapporto di lavoro e poi, giusto un anno fa, di Annette Kurchus, alla guida dell’Ekd, la Chiesa evangelica in Germania, sospettata di aver coperto un collega autore di abusi. Le chiese protestanti francesi stanno affrontando l’argomento con estrema serietà, smosse anche dalle vicende cattoliche, ma manca uno studio sistemico sul tema. Come del resto manca nella Chiesa svizzera: se ne sta discutendo ma non si riesce a giungere ad una definizione chiara. Un cincischiare che colpisce l’opinione pubblica. In Germania sembra che l’analisi sia più avanti, ma anche qui non sono mancate polemiche roventi sull’operato della Commissione chiamata a valutare i casi di abusi nella Chiesa evangelica e nelle sue organizzazioni.

In giro per il mondo i casi poi si sono moltiplicati ovunque.

 

E noi?

Un apposito gruppo di lavoro nominato dalla Tavola Valdese e dalla Commissione sinodale per diaconia ha elaborato delle “Linee guida per la tutela dei minori e la prevenzione dell’abuso“, presentate al Sinodo delle chiese metodiste e valdesi del 2017.

Si è trattata della prima tappa di un più ampio percorso di sensibilizzazione e formazione che, per come esplicitato nel documento, ha come scopo quello di rafforzare l’attenzione delle istituzioni ecclesiastiche, ad ogni livello, su un tema di grande importanza e attualità, dotandosi di «strumenti che possano aiutarci a rendere i nostri ambienti luoghi sicuri e protetti, in cui bambini e giovani possano trovare spazi di libera espressione e valorizzazione rispettosi della loro dignità, dei loro tempi, delle specificità di ciascuno, prevenendo comportamenti inadeguati e situazioni di abuso, ma anche ispirando fiducia e imparando a cogliere e gestire in modo adeguato eventuali segnali di sofferenza e disagio».

 

Oggi forse è tempo di compiere un passo ulteriore, immaginare un seminario nazionale per rendere ancora più chiaro quanto il tema stia a cuore alle comunità. E servono più strumenti per raccogliere le eventuali denunce.

 

Le chiese tutte devono continuare a essere un rifugio dei deboli, e non di molestatori o violentatori. Altrimenti corrono il rischio di perdere autorità di fronte alla società, di cessare di essere interlocutrici credibili quando a gran voce chiedono a ragione giustizia per gli ultimi, i dimenticati, i reietti.

 

Tutte queste dimissioni sono certamente il segnale di quanto con serietà venga affrontato l’argomento una volta deflagrato. Il problema è tutto quanto c’è prima, compresi i comportamenti degli stessi dimissionari che spesso sapevano e hanno taciuto. La denuncia o le dimissioni postume rischiano di non essere sufficienti, e nemmeno rimanere immobili pronunciando “Io speriamo che me la cavo”.