Resistere: del “buon uso” di un vocabolo

A Torino un seminario dedicato a “Donne e Resistenze. Un percorso tra storia e contemporaneità

 

Il 22 ottobre si è svolto presso l’Aula Magna del Campus Luigi Einaudi di Torino il secondo di un ciclo di quattro seminari dedicati alla storia di genere, dedicato a “Donne e Resistenze. Un percorso tra storia e contemporaneità”. La serie di incontri è organizzata dal Coordinamento degli Istituti culturali del Piemonte, dal Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e dalla Fondazione 1563 per l’Arte e la Cultura della Compagnia di San Paolo. A questa seduta ha collaborato l’Ordine degli Architetti di Torino.

Pubblichiamo l’intervento di Luciano Boccalatte, vice presidente dell’ Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti”

 

Resistere: del “buon uso” di un vocabolo

 

Il filologo tedesco Victor Klemperer, di origine ebraica ma convertito al protestantesimo e perseguitato dal nazionalsocialismo, nell’analizzare la lingua del regime che lo destituì dall’insegnamento nel 1935, si interroga sul potere del linguaggio in quanto fattore, e non solo veicolo, della costruzione di visioni del mondo: “Le parole possono essere come minuscole dosi d’arsenico: si inghiottono senza farci caso, sembrano non fare alcun effetto, ed ecco che dopo qualche tempo l’effetto tossico si fa sentire” (LTI. La lingua del Terzo Reich, 1947).

Nell’epoca delle società di massa la confusione lessicale, amplificata dai mezzi di comunicazione, da forme pervasive di propaganda spesso inavvertita come tale, è fenomeno presente: decodificare, “disintossicare” i termini “Resistere / Resistenza”, tema del seminario, è quanto mai necessario. E ciò può avvenire, intanto, restituendo ai vocaboli il loro significato, così come si è venuto a creare nel corso della storia.

 

Dal latino classico resistĕre, “restare fermi”, il termine assume, nell’evoluzione delle lingue neolatine, il senso del  “fare ostacolo”, atto di opporsi con la forza a chi fa uso della forza, specialmente in guerra. Così è attestato fin dal XIII secolo: Tommaso d’Aquino, nel De Regno, ritiene legittimo il tirannicidio se questo ha come esito la liberazione del popolo.

Dal XVI secolo il termine viene precisando la sua valenza politica di opposizione a una limitazione della propria libertà, del tener testa a una autorità costituita e oppressiva: per citare un esempio si veda il pamphlet pubblicato nel 1579, Vindiciae contra Tyrannos, firmato Junius Brutus ma dovuto alla penna dei protestanti Philippe Duplessis-Mornay, teologo, e Hubert Languet, diplomatico. Un tenace filone di pensiero lungo i secoli, che trova più compiuta teorizzazione specialmente nel Secondo trattato del governo civile di John Locke (1662), che definisce il diritto alla disobbedienza passiva (resistance) e attiva, l’insurrezione (rebellion), il diritto a ribellarsi al sovrano ingiusto o a una potenza occupante.

 

“Un secolo esatto separa le riflessioni del politico teorico (e militante) inglese dalle affermazioni del 1789, in cui si fonda in età contemporanea la tradizione politica francese e europea che è, su questo tema, d’importanza basilare” (Gianni Perona, Resistenza e insurrezione. L’esperienza della Guardia di Finanza di Milano, in Quando l’America puntò sull’Europa, 2020). La Rivoluzione francese sistematizza il lungo percorso: l’alto concetto di resistenza espresso nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789, è atto fondativo e capitale. All’art. 2 è solennemente affermato che “Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono: la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. Diritto naturale non disgiunto dagli altri; il successivo art. 16, anzi, li considera condizione necessaria per l’esistenza stessa di una costituzione: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha alcuna costituzione”.

 

Principi ripresi nella successiva Costituzione dell’anno I, approvata il 24 giugno 1793, mai applicata, dove il rapporto resistenza / diritti è ribadito all’art. 33: “La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo”.

Non c’è quindi resistenza senza diritti, né diritti senza che sia prevista la resistenza stessa (è frutto di uso solo politico l’espressione che, per restare ai giorni nostri, è impiegato dalla propaganda del regime teocratico iraniano, “l’Asse della resistenza”, regime che incarcera o uccide le donne che rifiutano il velo islamico, e manda al patibolo gli oppositori).

 

Ancora G. Perona precisa che “questa è una interpretazione generale del linguaggio politico, non necessariamente legata alla congiuntura della seconda guerra mondiale”. È da questo conflitto che il vocabolo assume il senso con cui si impiega oggi, le resistenze all’occupazione dei regimi nazista e fascista in Europa.

Tuttavia esso non viene immediatamente recepito. Nel 1940, nella Francia occupata, un gruppo di ricercatori e ricercatrici del Musée de l’Homme di Parigi, dà vita a un nucleo di opposizione, tra i primi a sorgere, e pubblica un giornale clandestino di cui usciranno  quattro numeri, dal 15 dicembre 1940 a fine marzo 1941, quando il gruppo venne decimato  dagli arresti, e molti dei suoi componenti fucilati.

 

Il titolo del giornale è scelto dopo una discussione tra i componenti: “Résistance”, che prevale su una prima opzione, “Libération”. Esso guarda, dichiaratamente,  sia alla tradizione secolare protestante che al pensiero di Locke:  “Résister” – register in occitano ‒ aveva inciso sul margine del pozzo del carcere l’ugonotta diciannovenne Marie Durand nella cella della Tour de Constance a Aigues-Mortes, dove fu rinchiusa per trentotto anni, dal 1730 al 1768, durante le persecuzioni di Luigi XIV (la resistenza alla conversione forzata).

Rari sono i riferimenti nella stampa clandestina della Resistenza italiana tra il 1943 e il 1945, e tutti nati in ambienti intellettuali: si possono citare  il “Movimento giovanile per la resistenza e la rinascita”, foglio studentesco di area cattolica e socialista, stampato per due numeri a Modena nel 1943, e “Scuola e resistenza”, numero unico del CLN della scuola, stampato a Milano nell’ottobre 1944.

 

In questo lungo itinerario, rapidamente percorso, quale posto hanno le donne? Durante il  seminario le relazioni illustreranno il tema nei suoi vari aspetti e casi, qui va evidenziato un principio fondamentale, ormai consolidato nella storiografia europea (si può citare solo a titolo di esempio, nella ormai immensa bibliografia, il volume curato da Laurentt Douzou e Mercedes Yusta, La Résistance à l’épreuve du genre, 2018).

La natura del movimento resistenziale negli anni Quaranta ‒ ma ciò può valere in altri contesti – è quella di una società clandestina, ma incistata nella società che opera alla luce del sole; si crea così una tensione tra vecchio e nuovo, una continua ambivalenza di fondo tra la concezione dominante e i nuovi rapporti tra i sessi che si formano. Se il resistere implica una scelta, una pratica di rottura, le donne devono superare due barriere: quella dell’opposizione a un regime o a una occupazione nemica, e quella di genere.

L’impegno delle donne è collocato nella società del tempo e deve essere osservato con gli occhi, gli occhiali, e anche i paraocchi dell’epoca, quando si scorrono documenti e testimonianze dell’epoca.

 

Una presenza e una  partecipazione che interroga e confligge con le rappresentazioni tradizionali del femminile di una società patriarcale: da tali stereotipi gli uomini della Resistenza, inevitabilmente, non sono immuni.