Un «Credo» ecumenico?

Proposta di riflessione sul Credo niceno-costantinopolitano in occasione del 1700° anniversario del Concilio di Nicea (325)

 

Nel maggio scorso, la Federazione luterana mondiale e la Chiesa ortodossa hanno rilasciato una dichiarazione congiunta sull’aggiunta della clausola del Filioque (ossia del procedere dello Spirito Santo dal Padre «e dal Figlio») al Credo niceno-costantinopolitano – aggiunta che, operata nel V sec. d.C. dalle chiese di area latina, ha diviso le tradizioni della chiesa orientale e occidentale per quasi 1000 anni (si veda Riforma online del 31 luglio scorso). Entrambi i partner suggeriscono di «utilizzare la traduzione dell’originale greco (senza il Filioque), nella speranza che ciò contribuisca alla guarigione di divisioni secolari tra le nostre comunità e ci consenta di confessare insieme la fede dei Concili ecumenici di Nicea (325) e Costantinopoli (381)».

 

Già in seguito al «Consenso differenziato sulla giustificazione», raggiunto nel 1997 fra luterani e cattolici, il Consiglio metodista mondiale, nel 2016, e la Comunione mondiale di chiese riformate (Wcrc) nel 2017, finirono per aderirvi, pur con molti distinguo, senza però che in varie chiese appartenenti a quegli organismi (incluse le nostre) lʼargomento fosse stato adeguatamente affrontato e discusso.

 

Lʼanno prossimo cadrà il 1700° anniversario del I Concilio di Nicea, il primo definito ‟ecumenicoˮ, il quale, come suo atto principale, formulò appunto il Simbolo di Nicea, un Credo che da allora, nella sua forma elaborata poi a Costantinopoli nel 381 d.C., è condiviso pressoché senza variazioni fino a oggi (a parte la questione del Filioque) da tutte le chiese cristiane, inclusa la nostra.

Tanto la versione del Credo del 325 d.C. quanto quella del 381 d.C., nella loro struttura, ricalcano molto da vicino il cosiddetto Simbolo degli Apostoli o Credo apostolico (quello che professiamo abitualmente nei nostri culti), formatosi tra il II e il III sec. d.C., ed esattamente come questo vengono tradizionalmente suddivise in 12 articoli, ripartiti in quattro grandi blocchi (Dio Padre, Figlio, Spirito Santo, Chiesa ed escatologia).

Oltre alla questione del Filioque, già a una prima lettura delle due versioni (325 e 381) emergono particolarità interessanti:

 

1) né nella versione del 325 né in quella del 381 è presente un riferimento a Gesù Cristo o al Figlio quale Parola (Verbum, Lógos) di Dio. Solo Macario il Grande ed Eusebio di Cesarea, a quellʼepoca, lo esplicitavano nelle loro proposte di confessione.

2) Né nella versione del 325 né in quella del 381 viene menzionata la «comunione dei santi», presente invece nel Credo apostolico oltre a «la chiesa».

3) Nella versione del 325, di Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, è scritto: «discese e si incarnò», punto. Solo nel 381 compare il riferimento al «grembo della vergine Maria». Lʼespressione è però antica e ricorre già nelle prime formule battesimali del II-III sec.

4) In nessun punto di nessuna versione del Credo si fa menzione di aspetti del carattere umano di Gesù (comportamento, parole, miracoli, ecc.): viene menzionato lʼessenziale di chi egli è per la fede cristiana e di ciò che gli è accaduto (Figlio unigenito consustanziale al Padre, piena incarnazione umana, passione, morte, risurrezione, intronizzazione alla destra del Padre e prospettiva futura), nulla però di ciò che egli abbia attivamente detto o fatto nella sua vita terrena (e questo è perfettamente in linea con le epistole paoline e con quelle cattoliche del canone neotestamentario).

 

La fede in Gesù Cristo (questo sembra esprimere la struttura stessa del Credo in tutte le sue versioni) crede in lui perché è il Messia, il Figlio di Dio incarnato; lo crede per ‟il fatto cheˮ era tale e che continua a esserlo immutabilmente: da ciò deriva tutto il resto. E non invece: perché era buono, potente, rivoluzionario, perché faceva miracoli o perché le sue parole erano più autorevoli di quelle di scribi e farisei.

Questʼultima posizione tende invece a diventare la base sulla quale si appoggia oggi la fede di chi crede o di chi vorrebbe credere in Gesù, nonché di molta catechesi degli ultimi decenni.

 

Dato che, tanto lʼanno scorso quanto questʼanno, il Sinodo valdese ha approvato atti che fanno riferimento allʼanniversario del I Concilio di Nicea, sarebbe forse opportuno coglierne lʼoccasione per proporre al Corpo pastorale, quale consulente teologico del nostro Sinodo, lo studio di alcuni degli aspetti che oggi ci appaiono più difficilmente comprensibili del Credo niceno-costantinopolitano, ivi compresa la questione del Filioque, onde approfondire, da un lato, la conoscenza sul piano ecumenico della variegata realtà di fede ortodossa e, dʼaltro lato, per confrontare gli approcci teologici e le diverse sensibilità sullʼargomento presenti a tutti i livelli nelle nostre chiese. Si avrebbe modo così di chiarire se sussista ancora realmente – non solo formalmente – una concorde confessione di fede in Gesù Cristo, oppure se ormai di fatto quelle antiche confessioni non esprimano più la realtà della fede mediante la quale crediamo.

 

 

 

Foto di Jjensen: icona che rappresenta il Concilio di Nicea