Giorgio Rochat. La Prima Guerra Mondiale e il suo mito

L’intervista allo storico, mancato il 19 ottobre, sulla retorica della Grande Guerra

Il 19 ottobre è mancato a Torre Pellice lo storico Giorgio Rochat. Lo ricordiamo oggi con un articolo e con la pubblicazione di alcune interviste che la nostra redazione aveva con lui realizzato negli ultimi anni. Quella che segue è l’intervista di Sara Emmanuela Tourn realizzata per il numero 80 della rivista “La Beidana”, in occasione del centenario dall’avvio della Prima Guerra Mondiale (2015).

 

Un secolo dalla Grande Guerra

 Interrogativi e riflessioni verso l’anniversario del ‘15-‘18.Intervista a Giorgio Rochat 

 

In vista dell’anniversario della prima guerra mondiale e delle iniziative ad esso dedicate, come il LIV Convegno storico della Società di Studi Valdesi che si terrà a Torre Pellice dal 5 al 7 settembre, abbiamo incontrato il Prof. Giorgio Rochat, che ne è uno degli organizzatori, oltre a essere uno dei massimi esperti in italia su questo periodo storico. Gli abbiamo posto alcune domande, in particolare sulla costruzione del mito della prima guerra mondiale e sulle sue implicazioni simboliche e culturali.

 

Cento anni, un secolo. Ormai i testimoni diretti sono scomparsi – un problema che del resto comincia a porsi anche per la seconda guerra mondiale – e restano solo testimonianze indirette o scritte: che cosa comporta questo?

Quando non c’è più il ricordo resta il mito. Nel convegno verranno evidenziati tre passaggi. Un primo momento, il lutto delle famiglie, il ricordo legato a morte, sacrificio, accettazione, i monumenti costruiti dopo la guerra un po’ ovunque, con l’elenco dei caduti. È una guerra laica, è importante ricordarlo, anche se ovviamente fatta da valdesi e cattolici, ma non sono state fatte distinzioni, anche nelle lapidi, la memoria è assolutamente laica, anche se oggi nelle commemorazioni del 4 novembre partecipano preti, qualche volta i pastori.

Dopo c’è la glorificazione: prima ancora dell’avvento del regime fascista, che poi calcherà la mano su questo, la prima guerra mondiale diventa la grandezza d’Italia, il monumento, la gloria attraverso il sacrificio e l’eroismo, poi anche le origini del fascismo e la sua legittimazione.

 

Si ha talvolta l’impressione che la memoria della seconda guerra mondiale e della Resistenza siano più vive rispetto alla prima: è solo un’impressione data da un fattore cronologico o c’è stata effettivamente una sorta di rimozione?

Nella fase della glorificazione si è attuata l’eliminazione di ogni forma di dissenso, l’eliminazione del ricordo del dissenso. Ad esempio le fucilazioni, che furono numerose come emerge da tutte le memorie, scompaiono. Il loro numero si scoprirà solo nel 1967-68. Così come il numero dei prigionieri e dei morti prigionieri, che fu molto alto, tutte cose venute fuori decenni dopo la seconda guerra mondiale. C’è stata quindi una rimozione, in parte normale e in parte voluta, strumentalizzata.

C’è poi la terza fase, che riguarda gli ultimi decenni, in cui non ci sono più reduci: rimane il ricordo, che in queste valli è legato al mito degli alpini, e dopo la seconda guerra mondiale differisce rispetto ad altre parti d’Italia. Qui non c’è tanto la tragedia di Russia, come a Cuneo o in Friuli, dove ha cancellato il lutto della prima guerra. In queste zone c’è piuttosto l’impiego del 3° Reggimento Alpini di Pinerolo in Jugoslavia, nella repressione dei partigiani, che però è stato totalmente rimosso. Rimangono invece, della seconda guerra, due ricordi: la guerra partigiana, che però è un ricordo di minoranza, e la prigionia in Germania, il ricordo dei tanti alpini internati.

Il ricordo della prima guerra quindi è rimasto. Ci sono stati fra i morti coppie di fratelli, in alcuni casi padri e figli, nella seconda guerra mondiale i morti sono stati molti meno. Basta guardare sulle lapidi l’elenco della prima guerra mondiale, e a fianco l’elenco della seconda guerra mondiale, che è molto più breve. Nel caso della prima guerra il ricordo ha avuto, poi, un radicamento obbligato, anche perché l’hanno fatta tutti…

 

Quindi si può parlare di una guerra “di massa”, per la prima guerra ma non per la seconda?

A parte un 30% di riformati per motivi fisici (un’alta percentuale, dovuta a secoli di fame patita), tra i venti e i quarant’anni tutti sono stati coinvolti. La seconda guerra ha avuto chiamate molto minori, molti sono rimasti a casa, soprattutto nella media borghesia, mentre nella prima sono andati tutti, contadini e borghesi. Per obbedienza, ma anche per convinzione, per mancanza di alternative o perché la facevano gli altri, per senso del dovere, le motivazioni sono tante. Anche chi all’inizio non la voleva, poi l’ha accettata, per dovere. Alle Valli la maggioranza era neutralista, tranne una minoranza più moderna, che faceva capo all’industriale Edoardo Giretti di Bricherasio, ed era interventista. Quando però fu dichiarata la guerra, anche mio nonno pastore (e così la grande maggioranza dei pastori, intellettuali, della classe media), Giovanni Bonnet, che era neutralista anche perché lacerato dall’idea delle due grandi potenze protestanti in guerra fra loro, è partito. Senza gridare “evviva”, ma con piena coscienza; ha comandato in trincea, ha fatto il cappellano, ha partecipato e non era costretto…

 

La seconda guerra ha avuto quindi un impatto diverso?

Per spiegare la differenza ho citato spesso l’esempio della mia famiglia: prendendo la generazione dei nonni e dei prozii, hanno fatto tutti la guerra, tranne quello che era partito per l’America trent’anni prima. Prendendo la generazione dei miei genitori, dei loro fratelli e cognati, solo uno ha fatto la guerra, mio zio Daniele Rochat, medico, che l’ha fatta dal 1936 al 1945 (per tutti, insomma…); gli altri nessuno li ha chiamati… mio padre lavorava in un’industria di radio, Willy Jervis alla Olivetti, altri due zii erano un impiegato di banca e un medico, un altro era pastore, ma non è andato. Nella seconda guerra i pastori in età di leva non sono andati (tranne quelli indicati come cappellani); nella prima, sono andati tutti…

Gli studenti dell’Università, nella prima guerra mondiale, sono per la maggior parte interventisti, vanno alla guerra, muoiono… nel seconda guerra mondiale, Mussolini non dichiara la mobilitazione generale, rimane quindi valido (in tempo di guerra!) l’esonero degli iscritti all’Università: la popolazione universitaria maschile raddoppia, perché gran parte dei giovani di buona famiglia si iscrive, evitando così (legalmente) di partire per la guerra…

 

Si può dire quindi che la prima guerra è stata più partecipata, in termini di arruolamenti, di convinzione, di morti, ha creato anche più miti positivi?

Della prima guerra è rimasto senza dubbio il mito positivo dell’alpino, il soldato buono, difensivo, la vignetta classica è l’alpino in piedi su una roccia con un macigno in mano, che grida “Da qui non si passa”, questo è il cliché. Ed è rimasto anche a livello di nomi delle vie, ultima consacrazione della prima guerra. Ma occorrerebbe uno studio approfondito, considerandone anche i cambiamenti, che dalla prima guerra a oggi sono avvenuti due o tre volte. Gli unici nomi legati alla seconda guerrasono quelli obbligati della Resistenza. Quelli della prima guerra richiamano gli alpini, Monte Granero, III Alpini…

Il ricordo prevalente è legato quindi all’immaginario degli alpini, al mito dell’alpino buono, anche se quelli che hanno fatto l’alpino sono meno della metà, gli altri erano soprattutto in fanteria… Non a caso l’ANA è l’unica associazione di reduci che ha ancora una sua esistenza.

Non è la guerra come conquista, ma come sacrificio, anche come lutto, e questo rimane nelle cosiddette “canzoni degli alpini”, anche precedenti alla guerra, poi riprese e adattate. In queste non c’è mai l’esortazione o l’esaltazione della guerra, ma il compagno morto, il lutto, la guerra difensiva, la guerra del mondo contadino.

 

Quindi quale connotazione assume il concetto di eroismo?

L’eroismo è stare in trincea, passare mesi a crepare, più che andare all’assalto. Poi c’è il maggiore Ribet di Pomaretto, ufficiale di carriera in fanteria, sul Carso, che prende quattro medaglie d’argento di fila, e alla fine muore eroicamente ottenendo la medaglia d’oro. Lui rimane un po’ l’eroe, così come Martinat di Maniglia, nella seconda guerra mondiale, alpino, che rimane un po’ il simbolo, muore salendo sul carro armato per andare all’assalto…

 

Se nella prima guerra il mito è quello dell’alpino buono, come viene visto il nemico? La visione cambia rispetto ai conflitti precedenti?

Io ho fatto il Liceo negli anni Cinquanta, su un testo che era ancora praticamente fascista, e si fermava alla prima guerra con il “barbaro austriaco”… Il mio riflesso di partenza era quindi che l’austriaco fosse barbaro, poi ci ho lavorato e ho capito che l’austriaco non era diverso da noi, anzi c’erano molti meno analfabeti nell’esercito austriaco che nel nostro.

La demonizzazione del nemico fa parte della guerra, di questa in particolare perché è una guerra di massa, di propaganda; sono cose che poi rimangono, con delle curiose strutture: nell’immaginario, il tedesco è più efficiente e corretto, l’austriaco è più scalcagnato ma feroce, ladro, sono immagini mitiche, costruite, che non riguardano solo la prima guerra. Nella seconda guerra mondiale c’era ancora gente che ha fatto il partigiano pensando di combattere contro il nemico austriaco.

Nessuna di queste immagini rimane statica, se pensiamo che il mito del soldato tedesco efficiente si costruisce nel corso dell’Ottocento con le vittorie della Prussia; ancora ai tempi di Napoleone prussiani e austriaci erano considerati soldati obbedienti e feroci, ma meno efficienti di francesi e inglesi. Nella battaglia di Waterloo c’erano da una parte i francesi e dall’altra gli inglesi e i tedeschi, ma i tedeschi tutti li dimenticano…

 

Che cosa ha significato questa guerra a livello economico e sociale per le valli valdesi? Differiscono dal resto d’Italia o possiamo inserirle in un contesto più generale?

La guerra livella, non c’è differenza fra le varie regioni. C’è piuttosto una differenza fra città e campagna, la piccola proprietà generalmente se la cava meglio, con qualche animale, l’orto, in città con l’aumento dei prezzi le difficoltà aumentano. Con gli uomini dai venti ai quarant’anni via da casa, la scarsità di cibo, c’è indubbiamente un calo del livello di vita.

 

Per quanto riguarda la mortalità, quali sono le conseguenze della guerra?

La mortalità è difficile da misurare, così come le conseguenze civili e umane.

Per la prima guerra si contano seicentocinquantamila morti maschi: cinquecentomila nella guerra, centomila in prigionia e cinquantamila dopo la guerra per diverse conseguenze.

Ma nello stesso periodo seicentomila persone muoiono in Italia per l’influenza spagnola, che si diffonde in tutta l’Europa; in Italia ci sono molti più morti, in proporzione, sia a causa della denutrizione, sia per la diminuzione dell’assistenza sanitaria. Se alla vigilia della guerra la malaria e la tubercolosi erano praticamente debellate, durante la guerra si diffondono nuovamente perché gli ospedali devono curare feriti e malati di guerra.

Dietro a tutto però c’è anche la fame arretrata; in Francia per esempio è diverso, i soldati morti in guerra per malattia sono il 10%, in Italia il 20%. Ci sono poi cose difficili da capire, nell’esercito italiano si lesinava sul vino… con le difficoltà legate all’assenza di cucine da campo, alla qualità del rancio, una quantità adeguata avrebbe aiutato contro i problemi di digestione, piuttosto frequenti in trincea. In Francia i soldati potevano addirittura comprare il vino in trincea…

 

Le donne sono state ovviamente colpite “di riflesso”, ma che cosa si può dire della loro partecipazione, rispetto ad esempio alla seconda guerra?

Le donne sono coinvolte come vittime e ovviamente nei lutti collegati alla guerra, ma è una guerra di soli maschi (questo non vale solo per l’Italia ma per tutta Europa), più ancora che nel passato; ancora nelle guerre del Risorgimento qualche eroina si trova.

È una guerra di eserciti regolari, la prima guerra con un esercito pienamente organizzato, quindi uno scontro solo di eserciti, che si fanno terra bruciata intorno, non c’è il ruolo fluttuante delle donne che nelle guerre precedenti c’era sempre stato, nelle figure di vivandiere e prostitute.

Nelle retrovie si trovano certo bordelli e varie forme di prostituzione, e sul campo le crocerossine, ma per trovare donne che abbiano partecipato alla guerra dobbiamo pensare alle figure un po’ mitiche delle portatrici, specie sul fronte friulano, contadine che portavano nelle gerle proiettili e viveri.

Nella seconda guerra mondiale ci sarà invece una presenza femminile attiva nella Resistenza, discussa e magari ridotta, i bombardamenti coinvolgeranno ovviamente anche le donne.

 

Durante questo conflitto lo sviluppo della tecnologia bellica ha mostrato in modo più tragico le sue lacune: una grande potenza di fuoco abbinata alla limitazione degli spostamenti, come dici nel tuo articolo pubblicato sul n. 226 della rivista «Gioventù evangelica» (inverno 2013).

Fino alla seconda metà dell’Ottocento il mezzo di locomozione e trasporto era il cavallo (o il mulo, il bue, il cammello, a seconda dei contesti), che ha bisogno di cibo, e non erba qualunque ma diversi kg di avena al giorno… Per questo gli eserciti erano relativamente piccoli, arrivano a sessanta-settantamila uomini nelle guerre del Risorgimento. Durante la seconda guerra mondiale l’esercito italiano avrà due milioni di uomini al fronte!

Con la ferrovia tutto cambia, i treni portano al fronte gli uomini, le armi, i rifornimenti, un volume impressionante. E poi cambiano le armi, fino alla prima guerra il progresso tecnico era stato limitato: con la mitragliatrice, un’arma fissa, non occorre prendere la mira e scarica a una velocità terrificante, i cannoni scaricano proietti da cinquanta kg che spargono migliaia di schegge…

La guerra cambia completamente, sei costretto a stare nelle trincee perché se ti alzi rischi la pelle. Non è più possibile andare all’assalto con la baionetta, a meno di subire perdite altissime come accade nelle prime fasi della guerra.

È un volume di fuoco straordinario, che nessuno aveva calcolato. Si tratta quindi di una potenza enorme, ma statica, immobile. La mitragliatrice pesa cinquanta kg, più le munizioni, i cannoni non si possono spostare. Stanno nascendo i primi camion, trattori e aerei, non ci sono ancora i carri armati, inventati alla fine della guerra. Spostarli a braccia su per le montagne non si può fare, a maggior ragione sul campo di battaglia…

Occorre devastare le trincee nemiche per procedere, ma anche in quel caso i cannoni nemici sono più indietro e ci si trova allo scoperto, senza che i propri cannoni possano colpirli.

La seconda guerra cambierà tutto, con i bombardamenti aerei, i carri armati, e un uso limitato delle trincee. Nella prima c’è questa impasse, questo blocco, che si cerca di superare inventandosi le cose più assurde, come i lanciafiamme…

 

Un’arma molto pericolosa?

Era un bidone pieno di benzina caricato sulle spalle, con un tubo ad aria compressa… pericolosissimo per chi doveva portarlo… e dall’utilità limitata, poteva funzionare per prendere un fortino, non per andare all’attacco su un fronte… ecco perché sul Carso hanno impiegato tre anni per avanzare di 1500 metri, in certi punti…

E poi inventano i gas, che sono anche peggio, sebbene abbiano fatto meno morti di quelli che sono stati loro addebitati; il cannone funziona meglio, ma il gas fa un’enorme paura. Metti la maschera, e speri che funzioni. Ma se non funziona? Durante la seconda guerra c’era di tutto, ma non hanno più usato i gas, perché ne erano usciti con una connotazione di orrore tale che nessuno ha più osato usarli. Sono stati impiegati quando si era sicuri che il nemico non li potesse restituire, noi contro gli abissini, i francesi contro i marocchini, gli americani in parte in Vietnam; nella seconda guerra tutti li avevano ma non sono stati impiegati…

Ci sono stati però anche degli sviluppi positivi, ad esempio nel campo della chirurgia, della ricerca medica, con la diffusione delle radiografie. Non dico che ne valesse la pena…

 

In effetti il prezzo è stato un po’ troppo alto! In termini di distruzione e perdite, si ha l’impressione che la prima guerra abbia portato una devastazione unica… ma è proprio così?

La guerra dura proprio perché immobile, è una guerra a esaurimento. C’è una violenza tutta concentrata sulla trincea, che diventa il simbolo dell’obbrobrio. La prima guerra fa dieci milioni di morti, in gran parte soldati, la seconda ne fa forse sessanta milioni in gran parte civili, ma la prima è rimasta nella memoria come qualcosa di apocalittico, con scenari lunari, il ricordo di una vita infame, come fai a vivere settimane col fango al ginocchio, senza muoverti, diventi matto in sostanza…

In Italia (ma anche in Francia ad esempio) è rimasta l’idea che la trincea è stata la guerra peggiore, anche rispetto alla seconda, forse anche perché i bombardamenti non sono stati devastanti come in Germania, la nostra guerra civile non ha visto i milioni di morti della guerra russa…

 

A proposito degli altri Paesi coinvolti: si possono stabilire somiglianze e differenze rispetto alle responsabilità nel conflitto?

Si tratta di una guerra per il predominio sull’Europa principalmente fra la Germania e l’Inghilterra, ma anche la Francia e un po’ meno la Russia concorrono. Stati di diversa potenza, quindi con diversi ruoli e responsabilità. In realtà si somigliano un po’ tutti, a parte gli stati dell’Europa orientale, sono Stati liberaldemocratici, con libere elezioni, libertà di stampa, anche i loro eserciti si assomigliano abbastanza, le armi sono più o meno le stesse. Alla fine l’Inghilterra vince grazie al suo dominio sui mari, avendo la possibilità di avere più armi e viveri. L’esercito italiano in fondo non era messo così male…

 

Invece c’è piuttosto l’idea che l’esercito italiano nella prima guerra sia scalcagnato, o almeno così insegnavano a scuola…

Quello del fascismo era scalcagnato, per cause legate al regime; nella prima guerra mondiale il nostro esercito non era messo così male; alla fine era efficiente, un po’ più piccolo degli altri, ma non peggiore.

C’era ancora una classe dirigente in grado di esercitare un’egemonia, avere il consenso della grande maggioranza della borghesia, l’obbedienza di contadini e operai, resistenze interne minime. E poi un’industria in crescita, che ci crede, non è all’avanguardia ma non è così arretrata, la FIAT diventa una grande industria producendo camion per la guerra, mitragliatrici (la mitragliatrice della prima guerra mondiale si chiama Fiat Villar Perosa), motori per navi, aerei…

Nella seconda guerra mondiale l’industria non ci crede, il fascismo non riesce a esercitare un’egemonia, nasce per schiantare il movimento operaio ma non per modernizzare il paese, come invece cerca il nazismo, con la concentrazione del paese sugli obiettivi bellici. La FIAT punta sul dopoguerra, nel ’40 ha una fabbrica in Francia e una in Germania, perché così almeno una si salva… e crea una direzione in Svizzera e una a New York…

 

Tornando alle responsabilità, nella seconda guerra invece…

Nella seconda guerra è certamente dei tedeschi. Nel ‘39 nessuno degli altri Stati voleva la guerra, anche se neppure loro sono innocenti. Mentre nella prima le responsabilità sono ripartite, è sbagliato dire che è stata colpa dei tedeschi.

E poi c’è la terza, che non è ancora finita e che almeno non si combatte più con le armi (almeno in Europa): la Germania punta al predominio sull’Europa, l’espansione dell’industria tedesca cozza contro gli interessi degli altri Stati, e il gioco è complicato perché ci sono tanti giocatori coinvolti, la Russia, gli Stati Uniti… Meglio con le Volkswagen che con le armi… però si spara a Kiev che non è così lontana!

A quell’epoca c’era l’idea che queste cose si regolassero con la guerra, che veniva nobilitata con motivazioni ideali; ma la sostanza non è così diversa…

 

Insomma, niente di nuovo sotto il sole…

Foto: http://commons.wikimedia.org/