Giustizia riparativa come educazione al fare comunità

Una riflessione su uno strumento di recente introduzione nell’ordinamento nazionale

 

Nella letteratura specialistica del nostro paese il modello della giustizia riparativa (Restorative justice) per lo più rimanda direttamente alle questioni relative alla ricerca di risposte al crimine, alla necessità di rivedere i sistemi di applicazione della pena e allo sviluppo di nuove forme di trattamento in grado di ridurre i problemi di gestione penitenziaria. In realtà, già la sua principale innovazione – la specifica attenzione offerta alla vittima del reato e al suo coinvolgimento nel trovare forme di “riparazione” al torto subito – ne qualifica la particolare visione di giustizia, dissonante con quella delle applicazioni meramente strumentali.

 

È pur vero che già da diversi anni la penalistica ha cercato di introdurre alcune normative indirizzate alla protezione della vittima di reati nel processo penale, nell’ordinamento penitenziario stesso e, soprattutto in ambito minorile, nel coinvolgimento del reo. Ma è con la riforma Cartabia (L. 134/2021 e d.lgs. 150/2022) che questi tentativi trovano un’integrazione organica nell’assetto giuridico penale del nostro paese. La riforma, infatti, accentua l’attenzione nei confronti delle vittime di reato attraverso dei programmi di sostegno per la ricostruzione dell’integrità violata da chi ha commesso un crimine ai loro danni. Lo scopo è di promuovere la riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. Questo modello, già presente in molte società tradizionali, in epoca contemporanea prende avvio negli anni Settanta del Novecento, principalmente come strumento di mediazione tra vittima e autore del reato. Successivamente si sviluppa in una proposta di intervento più ampio che include l’intera comunità nella gestione e riparazione del danno. Vittima, colpevole e comunità, cioè, sono i protagonisti in questo sistema di rigenerazione (termine preferito da Marinetta Cannito Hjort, perché più rispondente al concetto di restorative) della giustizia che è pratica sociale e che non può limitarsi al comminare la pena in tribunale, al confinare il reo in prigione o all’introdurre forme di pene alternative al carcere.

 

La giustizia riparativa, dunque, è una prospettiva che guarda oltre la via giudiziaria, perché prima di tutto è legami, amicizie, familiarità, rapporti: un paradigma che informi culture efficaci in ogni conflitto personale e sociale, o – più in generale – nella costruzione di relazioni sociali. L’incontro mediato tra vittima e colpevole (che avviene solo previo consenso della vittima) ha proprio nella comunità il luogo di restituzione, costruzione e rinnovamento di relazioni in cui tutti e tutte sono coinvolti. Avere la possibilità di scoprire e assumersi la responsabilità del male arrecato e di quello ricevuto: è da qui che si può partire per ricostruire.

 

In questa ottica, in Matteo 5, 21-22, leggiamo: «Voi avete udito che fu detto agli antichi: “Non uccidere: chiunque avrà ucciso sarà sottoposto al tribunale”; ma io vi dico: chiunque si adira contro suo fratello sarà sottoposto al tribunale; e chi avrà detto a suo fratello: “Raca” sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli avrà detto: “Pazzo!” sarà condannato alla geenna del fuoco». Gesù comanda di non uccidere sororità e fraternità umiliando la dignità del prossimo, con parole sconnesse e rabbiose che creano distanze e edificano relazioni violente, tossiche e omicide. Gesù ci invita a guardare là dove ha origine l’azione violenta e l’omicidio: in noi stessi, nelle fragilità che ci abitano e che possono far venir meno la compassione. Proseguendo, ai vv. 23-24 è scritto: «Se dunque tu stai per offrire la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi vieni a offrire la tua offerta». È nel sentire il richiamo della riconciliazioneriparazionerigenerazione, allora, che viene evidenziato il senso del vero culto al Signore.

 

Come credenti dovremmo fare nostre queste indicazioni e testimoniare l’evangelo della riparazione-rigenerazione delle relazioni sociali, comunitarie e individuali. È possibile immaginarci come coloro che sono affamati e assetati di giustizia, operando nella certezza che la presenza del Cristo morto e risorto sia sempre in mezzo a noi nel sanare le relazioni interrotte e/o disfunzionali. Le nostre comunità sono costituite infatti da persone che molto probabilmente non avrebbero mai (o quasi) condiviso esperienze o non si sarebbero reciprocamente accettate per quello che sono, oppure, più semplicemente non si sarebbero mai incontrate. Eppure, diventano luogo di accoglienza e condivisione nel comune riferimento a Dio che si manifesta in Cristo e attraverso l’azione dello Spirito santo trasforma le vite dei singoli. Se ci assumessimo pienamente la responsabilità di riscoprire in Cristo chi siamo come chiese, potremmo davvero offrire un’educazione al fare comunità, alla costruzione cioè di spazi inclusivi proprio a partire dalle nostre singole storie.

 

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Bouchard Marco, Fiorentin Fabio, La giustizia riparativa, Giuffrè, Milano 2024.

Cannito Marinetta Hjort, La trasformazione dei conflitti. Un percorso formativo, Claudiana, Torino 2017.