Risposta a papa Francesco sui medici “sicari”. Goss: la regola del rispetto vale sempre

Un commento della pastora Ilenya Goss, Coordinatrice della Commissione per i problemi etici posti dalla scienza delle chiese battiste, metodiste e valdesi

 

I medici che praticano l’aborto, per papa Francesco, sono dei “sicari”.

 

Abbiamo chiesto alla pastora Ilenya Goss – Coordinatrice della Commissione per i problemi etici posti dalla scienza delle chiese battiste, metodiste e valdesi – di rispondere ad alcune domande sul tema. Goss ha tre lauree, in medicina, filosofia e teologia.

 

Dal 1978, anno dell’approvazione della legge 194, sembra esserci un ritorno indietro. Cosa è cambiato da allora, alla luce del fatto che fu anche l’elettorato cattolico a permettere di arrivare a questa norma?

Dal 1978 a oggi la Legge 194 è stata contestata a più riprese dalle associazioni chiamate “pro life”, e anche dal magistero della Chiesa cattolica, talvolta richiamandola apertamente, ma non sempre. La Legge che regolamenta l’interruzione volontaria di gravidanza, “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” passò il suo iter parlamentare godendo di ampio sostegno, a dimostrare che il Paese era pronto ad affrontare un tema rilevante da almeno due punti di vista: quello della tutela della salute delle donne che interrompono una gravidanza, e quello della garanzia del diritto delle donne a compiere scelte fortemente impattanti sulla loro vita personale, emotiva, fisica, psichica. Oggi il clima sociale, culturale e politico nel mondo e in Italia ci fa percepire la fragilità di acquisizioni che credevamo stabili. Il trend delle interruzioni volontarie di gravidanza è di una diminuzione dal 1983 a oggi, a dimostrazione che chi paventa un uso troppo ampio della Legge non tiene conto né dei dati né delle oggettive difficoltà che invece trova la sua applicazione. Le donne hanno sempre abortito nel corso della storia, clandestinamente e in condizioni sanitarie precarie o pessime, andando incontro a infezioni, danni permanenti per la fertilità o decesso, come di fatto avveniva in Italia prima del 1978 e ancora avviene in Paesi in cui non è possibile avere assistenza sanitaria per procedere. Immaginare di riportarci a quel tipo di scenari è per lo meno irresponsabile, se non vogliamo usare termini più gravi.

 

Le dichiarazioni di papa Francesco (come quelle sulla “frociaggine”, questa sui medici “sicari”, oltre al recente suo discorso sul ruolo delle donne all’Università cattolica di Lovanio, seguito da aspre critiche sia dal personale docente sia da studenti e studentesse) riflettono secondo lei una sorta di fragilità misogina nei vertici del patriarcato religioso? La forma è ancora sostanza?

A proposito di uso dei termini, nella risposta precedente ho cercato di usare un linguaggio consapevole, invece non sempre le esternazioni del Pontefice sembrano tenere debitamente in conto l’effetto mediatico delle parole. Personalmente non penso che si tratti solo di un uso poco accorto della comunicazione, quanto piuttosto dell’emergere di un pensiero. Le proteste dopo il discorso di papa Francesco all’Università Cattolica belga rilevano l’approccio al femminile estremamente conservatore, restrittivo, oppressivo che emerge dai richiami ai classici ruoli di genere che il Pontefice attribuisce alle donne. L’uso del termine “sicari” riferito ai medici che applicano la Legge italiana in materia di interruzione volontaria di gravidanza ha un connotato piuttosto serio, e non è difficile capire che con quel tipo di accusa si intendeva ribadire tesi note, che purtroppo si traducono nell’affermare che una donna va costretta a portare a termine una gravidanza anche quando non lo vuole.

 

È possibile secondo lei sospendere il giudizio sugli altri e concentrarsi prima su una comprensione più profonda di sé stessi e delle proprie convinzioni?

Più che di sospendere il giudizio penso si tratti di acquisire sul serio che gli esseri umani vivono esistenze complesse, talvolta situazioni drammatiche, e che spesso sono le donne a pagare il prezzo più alto alle storture e alle violenze culturali e religiose presenti in molte realtà. Lanciare accuse che somigliano a insulti non sembra un aiuto a cercare soluzioni insieme, non sembra neppure in linea con un messaggio che chiama ad accompagnare le situazioni più dolorose, a mettersi in gioco e talvolta ad accettare di fare qualcosa che non è bene in senso assoluto, ma è il meno dannoso possibile in quel momento in quel contesto.

 

Come bilanciare la difesa della libertà di parola con la tutela dei diritti religiosi, considerando ad esempio i tentativi di codificare la blasfemia come reato a livello internazionale? Si può trovare un bilanciamento tra la difesa della libertà di parola e la tutela dei diritti religiosi, senza scivolare in uno stallo o una restrizione dei diritti civili?

Penso che la vecchia lezione liberale possa fornirci ancora un aiuto per gestire la questione sociale, culturale e politica dell’esercizio di diritti e libertà: che sia garantita la libertà di espressione è una irrinunciabile acquisizione che non mi pare in contrasto con il diritto al rispetto per le religioni. C’è differenza tra esprimere un pensiero, compresa la disapprovazione di qualcosa, e l’insulto: ciò che è fondamentale è che tutti gli attori sulla scena applichino le regole. Il rispetto è dovere di chi parla e diritto di chi ascolta, come il diritto di espressione per chi parla è dovere di lasciar esprimere per chi ascolta. È l’aggressione verbale, l’insulto, la denigrazione che non fanno parte di un modo di vivere e rapportarsi che vorrei vedere nel mondo che lasciamo alle future generazioni, e su questo mi sembra ci sia molto da fare.

Di Nev-Notizie Evangeliche

 

 

“Memorie” (2016), installazione di Daniela Capaccioli, rete metallica – foto Elena Ribet