Mauro Rostagno, ucciso il 26 settembre 1988

Assassinato perché aveva illuminato ciò che doveva rimanere immerso nelle tenebre

 

Quella di Mauro Rostagno, sociologo-giornalista, tra i fondatori di Lotta Continua, è una vicenda tragica – tipicamente italiana – fatta di protezioni, anomalie, dimenticanze, sotterfugi, veleni e soprattutto depistaggi. Il 26 settembre 1988 a Lenzi di Valderice in provincia di Trapani, Rostagno venne ucciso con quattro colpi di fucile calibro 12 e due di pistola 38 special. Magistrati e squadra mobile dichiararono immediatamente l’omicidio del giornalista delitto di mafia. Le indagini dei carabinieri, agli ordini del maggiore Nazzareno Montanti, andarono in tutte le direzioni eccetto quella che avrebbe portato alla mafia e a Totò Riina. Il maggiore lo riteneva “un omicidio commesso da dilettanti”, per il fatto che il fucile era esploso in mano al sicario. Rostagno viveva in Sicilia da un anno, aveva aperto la Comunità Saman per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti insieme alla compagna Chicca Roveri e all’amico Francesco Cardella.

 

Sin dai primi giorni aveva cominciato a lavorare per una televisione locale di Trapani Radio Tele Cine, diventandone il giornalista più popolare per il suo modo di fare tv. Il suo studio era la strada che percorreva con una piccola telecamera, voleva capire le problematiche della provincia siciliana, dando la possibilità ai cittadini di fare denunce. Realizzava inchieste sui poteri forti della città e interviste a magistrati, tra questi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che di lui si fidavano. «Ho scelto di non fare televisione seduto dietro ad una scrivania ma in mezzo alla gente, con un microfono in pugno mentre i fatti succedono», aveva scritto al suo compagno di vecchia data Renato Curcio.

 

Il magistrato Antonio Ingroia, stretto collaboratore di Paolo Borsellino, prima a Marsala poi a Palermo come sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia, dal 1996, dopo la chiusura delle prime indagini, per dodici anni, ha inseguito la pista mafiosa, chiudendo l’inchiesta sull’omicidio nel giugno 2008 con il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga capo mafia del mandamento di Trapani alleato dei corleonesi di Riina, organizzatore dell’assassinio.

 

Il procuratore di Trapani Gianfranco Garofano, che si occupò per primo del caso, aveva accusato la compagna di Rostagno, Chicca Roveri, di essere la mandante del delitto, maturato all’interno della Comunità: adulterio, traffico di droga, i moventi. I giornali misero l’omicidio in copertina, i telegiornali tra i primi titoli. C’era nel dramma anche del pruriginoso: il triangolo, la compagna tradita che si vendica, ecc. Fu Ingroia a denunciare che «le fasi iniziali dell’indagine erano state contrassegnate dalle dimenticanze, dalle anomalie, dalle negligenze».

 

Fondamentale fu l’inchiesta del direttore del settimanale Diario di Enrico Deaglio, amico di Rostagno. Si erano conosciuti nel 1969 nella redazione milanese di Lotta Continua.

 

Scrive Deaglio: «Alla luce del tramonto Rostagno, nascosto dietro le piste di decollo di Kinisia, ex aeroporto militare vicino a Marsala, filma un C130 dell’Aeronautica Italiana che scarica casse di medicinali per far posto a casse di armi dirette in Somalia. Mauro è convinto di aver aggiunto un grande tassello all’ipotesi che da Trapani mafia e servizi segreti gestiscano un traffico di armi e droga».

 

Nell’inchiesta di Deaglio si legge che dopo l’omicidio, avvenuto alle 19,50 mentre il sociologo-giornalista stava rientrando in Comunità insieme alla sua assistente Monica Serra, rimasta incolume, i carabinieri, per sviare le indagini, diffusero la notizia che Rostagno teneva in macchina due siringhe e un rotolo di dollari.

 

Della conclusione dell’indagine di Ingroia ne parlarono solo Diario, il manifesto, Liberazione e l’Unità e l’unico telegiornale fu il Tg3 di Antonio Di Bella.

 

Il silenzio dei media di quel giorno è inspiegabile: l’omicidio per gelosia andava raccontato in prima pagina, per mafia no. La condanna definitiva per l’uccisione di Rostagno arrivò nel 2020, ben trentadue anni dopo, la Cassazione condannò definitivamente Vincenzo Viga all’ergastolo, confermando così la primissima ipotesi, immediatamente scartata per nascondere ciò che Rostagno aveva scoperto con le sue inchieste.

 

La collusione tra la mafia e i servizi segreti, il traffico di armi che fine hanno fatto? Perché non vi furono nuove indagini? Mauro Rostagno fu ucciso perché aveva illuminato ciò che doveva rimanere immerso nelle tenebre. Scrisse Davide Vari su Liberazione il 14 giugno 2008: «Fu assassinato perché era un rompicoglioni che si era messo a fare il giornalista e lo fece come una missione».

 

 

 

Per gentile concessione dell’autore e di Articolo 21.org