Un faro da accendere sull’Africa
Torna a Torino dal 18 al 22 settembre il Festival delle migrazioni in collaborazione con Riforma
«Annibale, grande generale nero/ Con una schiera di elefanti attraversasti le Alpi/ E ne uscisti tutto intero/ A quei tempi gli europei non riuscivano a passarle/ Neanche a piedi…/ Con novantamila uomini africani/ Annibale sconfisse i romani./ Restò in Italia da padrone per quindici o vent’anni./ Ecco perché molti italiani hanno la pelle scura./ Ecco perché molti italiani hanno i capelli scuri./ Un po’ del sangue di Annibale/ È rimasto a tutti quanti nelle vene/ Sì, è rimasto a tutti quanti nelle vene».
Sono i versi di Figli di Annibale, un potente brano musicale interpretato da Raiz degli “Almamegretta” nel lontano (ma non troppo) 1993. È un’istantanea che mette perfettamente a fuoco lo stretto rapporto che ci unisce all’Africa dalla notte dei tempi, anche se troppo spesso ignoriamo (o dimentichiamo) la Storia.
Questo continente (da cui aspettarsi sempre qualcosa di nuovo, come annotava Plinio il Vecchio già nel I secolo d.C.) bussa vigorosamente alle nostre porte ma da qualche tempo succede il contrario perché, come afferma il giornalista francese Antoine Glaser, «l’Africa ha il mondo intero nella sua sala d’attesa». La nuova corsa all’Africa (iniziata in realtà da decenni) oggi vede in pista non solo le grandi potenze (preoccupate di difendere le rendite di posizione acquisite nel tempo) ma nuovi e agguerriti competitor. Turchia, Arabia Saudita, Corea del Sud, gli Stati arabi del golfo Persico (tra loro in forte competizione), India, Brasile contendono a Cina, Usa, Europa e Russia la primazia del frenetico attivismo politico-diplomatico-economico che con i conflitti in corso in Ucraina e in Palestina hanno avuto una improvvisa accelerazione.
Italia ed Europa sono in ritardo nell’individuare una strategia comune. Se Roma vara l’ambizioso “piano Mattei” (di cui fino ad oggi abbiamo visto poco), Germania e Francia trattano per conto loro, tutte preoccupate di tenere o mettere un “piede” nel Continente per fronteggiare emergenze energetiche e politiche derivanti dal nebuloso nuovo ordine mondiale che va creandosi dal pianeta in frantumi, dove la “terza guerra mondiale a pezzi” teorizzata da papa Francesco si allarga a macchia d’olio. Quadro, contorno e cornice sono lontani dal prendere forma compiuta anche per la buriana di grande incertezza che soffia sulle democrazie occidentali, in crisi al proprio interno e nei rapporti internazionali che ne hanno regolato fino a oggi il funzionamento.
La Cina è ormai il primo o il secondo partner economico di tutte le 54 nazioni africane. Una lenta e inesorabile “lunga marcia” data ormai per scontata dal sentimento comune che considera il Dragone come un inevitabile Moloch. Desta invece preoccupazione l’espansionismo russo alla luce della guerra in Ucraina. Provocatoriamente curiosa ed evocativa la copertina del settimanale Internazionale dello scorso 13 settembre che ritrae un fotomontaggio di Vladimir Putin in groppa a una zebra: il mammifero africano è notoriamente non addomesticabile per il suo imprevedibile carattere. Il presidente russo ha così domato il Continente? O piuttosto la paziente zebra finge di sottomettersi per poi scrollare dalla sella con un improvviso scatto l’intruso cavaliere?
Da quando Putin è presidente della Repubblica (ovvero dal 2000) ha ricominciato a tessere i fili di una tela che solo momentaneamente (dalla caduta dell’Impero sovietico nel 1989) era stata accantonata per fronteggiare la profonda crisi di un nuovo stato in caotica trasformazione che però non ha mai abbandonato il sogno di essere il protagonista del Grande Gioco politico-diplomatico iniziato nel XIX secolo.
In questo ha trovato la strada spianata da antichi e consolidati rapporti che legarono strettamente il regime comunista ai movimenti di liberazione nazionale durante i turbolenti anni della decolonizzazione. È stato necessario solo oliare quei meccanismi, evitando di sembrare interessati all’espansionismo neocolonialista che caratterizza le altre presenze straniere. In questo la Russia ha trovato terreno fertile nel progressivo abbandono dell’Africa da parte dell’Occidente. Un ritiro dettato da politiche nazionaliste (“America first” di trumpiana memoria sfociata nel disinteresse totale per il Continente), da crisi interne delle democrazie mondiali e dal crollo della grandeur francese che ha segnato la fuga dalla tumultuosa regione del Sahel. Certo, bisogna fare i conti anche con un Jihadismo che in questa area riscuote consensi non per la bontà della dottrina ma perché l’arruolamento (forzato o consenziente) è spesso l’unica alternativa a un futuro misero.
Ringrazio il Festival delle Migrazioni che ha la sensibilità per accendere un faro sull’Africa che in Italia (parafrasando il musicista Ivano Fossati) riscuote poca fortuna.