La dimensione interculturale è pervasiva

La strada dell’integrazione nelle chiese passa anche dalla formazione, molte le occasioni

 

La consacrazione al ministero pastorale di due giovani, Kassim Conteh e Maliq Meda, provenienti dal percorso “Essere chiesa insieme” (Eci), caratterizzato dall’incontro e dalla convivenza tra fratelli e sorelle con background culturali diversi, ha segnato un punto di svolta. Quest’anno la sezione del dibattito “Vita delle chiese” dedicata a Eci ha sancito che tale percorso, iniziato quaranta anni fa, possa in un certo senso considerarsi concluso.

 

Il vivace dibattito sinodale ha preso spunto da alcune considerazioni emerse da una ricerca/azione sociologica effettuata in alcune chiese metodiste e valdesi, che ne hanno tratto vantaggio dal punto di vista sia della riflessione critica sia del miglioramento delle buone pratiche. Nei casi di conflitti e incomprensioni che ostacolano la comunione fraterna lo sforzo va indirizzato verso la creazione di uno spazio in cui vi siano occasioni di chiarimento e di riconciliazione, con una mutua accoglienza delle diversità o punti di vista differenti, per la crescita nella fede. La ricerca, a cura del Centro studi Confronti che si presenta come un “laboratorio di dialogo interculturale e interreligioso”, verrà restituita alle chiese protagoniste ma sarà anche resa in parte accessibile al largo pubblico, proprio a significare il cambio di passo verso un approccio interculturale trasversale che interessa tutte le nostre comunità di fede.

 

Negli interventi è stato sottolineato che le differenze culturali da conciliare e far convivere riguardano non solo quelle comunità in cui vi è una presenza di persone con background migratorio, ma anche laddove occorre sviluppare intersezionalità, cioè la collaborazione tra le diverse esperienze di vita, di età e di provenienza, le differenze di genere e di livello di istruzione, tanto che i due nuovi pastori già operano in due chiese, a Angrogna e a Foggia, ai due estremi della Penisola, che sono diventate laboratori di integrazione. Tale parola – è stato specificato – va intesa come uno sforzo reciproco di costruzione di una relazione rispettosa, dialogante e aperta, che permetta di crescere e cambiare, grazie all’incontro interculturale che si esplica a vari livelli di inclusione: nella vita della chiesa locale, nella ecclesiologia e nella partecipazione agli incarichi e alle assemblee di circuito, di distretto e al Sinodo. Molte chiese sono attraversate da precarietà e difficoltà di varia natura che risultano essere un ostacolo per un’ampia partecipazione.

 

Lo sforzo va da adesso in poi indirizzato verso una maggiore accessibilità, favorendo la partecipazione di fratelli e sorelle che sono finora rimaste ai margini, incoraggiando cioè la traduzione culturale e il sostegno reciproco. Si spera quindi di preparare la strada affinché più giovani, donne e migranti possano partecipare al dibattito sinodale. Nell’ordine del giorno sulla “cura dei giovani” è stato in particolare richiamata la necessità di «promuovere attività di formazione a livello nazionale in particolar modo su tematiche interculturali, attivando a tutti i livelli (chiese, Circuiti e Distretti) il lavoro di rete e le occasioni di incontro, formazione e crescita nella fede» anche in ottica intergenerazionale. 

 

Per rafforzare la formazione, esiste il Master in teologia interculturale, offerto dalla Facoltà valdese, per cui è richiesta la laurea, o il Laboratorio Linfa, proposto dalla Fcei, accessibile a tutti. Spesso i conflitti e le incomprensioni scaturiscono da parole che feriscono e che bloccano le relazioni comunitarie, ma per imparare la trasformazione vi sono risorse formative ed esperienziali. Non rimane che approfittarne con fiducia.

Foto di Pietro Romeo