Il Kenya nello tsunami

Una sollevazione generazionale sta travolgendo tutta l’Africa

 

Le ragioni profonde delle proteste che hanno scosso il Kenya a partire da giugno vanno al di là della contestazione alla legge finanziaria giudicata ulteriormente punitiva per le fasce sociali più deboli. In un documento diffuso via social, i giovani (motore del movimento) scrivono: «Abbiamo un problema con i sistemi post-coloniali e le strutture che hanno operato nel paese negli ultimi 61 anni. Queste strutture hanno creato una società squilibrata di chi ha e chi non ha. Ci chiediamo come sia possibile che una popolazione con un alto tasso di scolarizzazione languisca in povertà mentre un piccolo gruppo di élite controlli più del 90% della nostra economia».

 

Inoltre, il documento denuncia come la ricchezza dei singoli non sia conseguita con il lavoro onesto e qualificato e che il merito alloggi su un altro pianeta. «Il nostro paese ha portato la pratica del clientelismo a tal punto che le qualifiche non contano per niente» scrivono gli attivisti stigmatizzando la spudorata esibizione di opulenza della leadership a fronte del totale disprezzo dei bisogni della gente: «Un tale comportamento proviene da un governo che impone misure di austerità».

 

La protesta non è nata negli slums, tradizionale culla del malessere sociale, ma essenzialmente tra i giovani della piccola e media borghesia penalizzati da scelte impopolari. È avvampata nel centro di Nairobi (per poi estendersi in tutto il paese) preso d’assalto pacificamente dai manifestanti giunti alla spicciolata sul posto a piedi, in autobus, rendendo impossibile fermarla alle forze dell’ordine. Si è diffusa via social e internet, grazie anche alle organizzazioni studentesche e professionali, bypassando i partiti di opposizione invitati anzi a stare a casa per evitare di mettere il cappello su un dissenso che ha travolto anche il loro operato, giudicato solo d’apparenza.

 

Le potenzialità conflittuali dell’uso dei social sono state immediatamente comprese dal governo che nei tre giorni precedenti alla prima manifestazione (26 giugno) ha formato squadre speciali (composte da elementi di servizi segreti, antiterrorismo, dipartimento delle investigazioni criminali) che hanno fermato gli influencer più in vista per seminare il terrore ed impedire l’espressione del libero pensiero, garantito dalla costituzione. Ma la vera notizia è il superamento da parte di questo movimento delle barriere create dall’appartenenza etnica e tribale, divisioni che hanno caratterizzato la vita sociale kenyana, abilmente usate per tenere diviso il paese.

 

È l’effetto dello tsunami generazionale che travolge tutta l’Africa.

 

Il presidente William Ruto ha dapprima imboccato la strada del decisionismo dispiegando l’esercito a fianco della polizia, per poi dirsi disponibile ad un dialogo di facciata ed infine capitolare (dopo 15 giorni di proteste e 41 vittime negli scontri) con il ritiro della legge finanziaria e lo scioglimento dell’esecutivo. Una sconfitta politica pesantissima per un presidente eletto due anni fa proprio dai giovani grazie alle promesse (non mantenute) di sostenere i lavoratori poveri e che apre una ferita insanabile nella coalizione di governo che lo sostiene penalizzata duramente dall’azzeramento. Elementi che rendono difficile una riconferma per il prossimo mandato presidenziale. Ma che mettono in discussione anche la credibilità internazionale di Ruto, che a Washington ha ricevuto l’investitura del più leale alleato degli Stati Uniti.

 

La voragine del debito pubblico è di circa 2,5 miliardi di euro. Il Fondo Monetario Internazionale ha concesso al Kenya un ulteriore prestito ponendo però come condizione l’aumento delle entrate nelle casse dello stato. Una emergenza finanziaria che si intreccia a inflazione, disoccupazione, contraccolpi della pandemia del Covid, conflitti russo-ucraino (blocco importazione del grano) e israelo-palestinese (aumento costi trasporti merci): una miscela diventata esplosiva. Ruto ha pensato di trovare soluzioni con l’aumento delle tasse su beni primari come pane, olio da cucina, uova, prodotti per l’igiene e automobili ma anche su tariffe telefoniche, navigazione internet, commissioni bancarie. Misure draconiane da cui però erano state esclusi aumenti degli stipendi dei parlamentari, appannaggi alle first lady di presidente e vicepresidente che non hanno nessun riscontro di figure costituzionali, rinnovo del parco auto statale, stanziamenti per rinnovo delle residenze presidenziali, aumento del numero dei consiglieri nelle istituzioni pubbliche, una prebenda elargita a spese dei contribuenti per servizi resi nelle campagne elettorali.

 

«Per ogni 100 scellini che il governo raccoglie in tasse – ha dichiarato Ruto – 61 servono a ripagare il debito pubblico del paese».

 

Una preoccupazione che non lo ha distolto fino ad ora a combattere la corruzione, il cancro del Kenya.

 

Dalla rivista mensile Confronti (settembre 2024)