Autonomia differenziata, in che cosa consiste?
Il dossier di settembre del mensile free press L’Eco delle valli valdesi dedicato a un tema discusso e analizzato dalla Chiesa valdese durante l’ultimo Sinodo
È in distribuzione in tutto il territorio del Pinerolese (e lo trovate anche nella home page del sito di Riforma) il numero di settembre del mensile free press L’Eco delle valli vadesi. Il dossier di questa edizione è dedicato all’Autonomia differenziata, tema di stretta attualità, dibattuto anche durante i recenti lavori del Sinodo delle chiese metodiste e valdesi in Italia, con tanto di Rodine del giorno approvato.
Quella che segue è l’intervista a Stefano Sicardi, professore emerito di Diritto Costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Un tentativo di fare chiarezza su un tema complesso che riguarda tutte e tutti noi. Buona lettura.
Per capire meglio la questione dell’autonomia differenziata abbiamo posto alcune domande a Stefano Sicardi, professore in pensione, emerito di Diritto costituzionale nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e Anziano della Chiesa cristiana evangelica di Mondovì.
In che cosa consiste il provvedimento del Governo che dà attuazione all’autonomia differenziata??
«L’autonomia “differenziata” si fonda sulla legge di revisione costituzionale che nel 2001 ridisegnò la posizione delle Regioni, in un clima generale più favorevole di oggi all’ampiamento delle autonomie e come risposta a richieste più radicali di sapore secessionista. Rispetto al testo originario della Costituzione la revisione del 2001 stabilisce un elenco di materie di esclusiva competenza statale, un altro elenco di materie su cui lo Stato detta i principi e le Regioni il resto della disciplina e, a chiusura, l’affermazione per cui le materie non comprese in questi elenchi spettano alla Regione.
Ma c’è di più: si prevede anche (art. 116, comma 3, Cost.) che le Regioni ordinarie che lo vogliono possano incrementare le loro competenze legislative “di base”, da un minimo a un massimo, nelle materie regionali condivise con lo Stato e in alcune materie statali, tramite un iter che muove dalla richiesta della Regione interessata, si snoda in trattative con gli organi statali e, se si giunge a un accordo, sfocia in un’Intesa, approvata con una particolare legge, tra la Regione richiedente e lo Stato. Se questa strada viene percorsa (come appare ormai certo) avremo allora Regioni ordinarie regolate da quanto stabilito nella parte “fissa” del titolo V e Regioni ordinarie che avranno “un di più” (anche cospicuo, a seconda di quanto ognuna di esse chiederà) nella legge che approva l’Intesa che le riguarda. Ecco quindi l’autonomia “differenziata”: alle Regioni che non hanno chiesto il “di più”, faranno riscontro quelle che lo avranno ottenuto, come da tempo certe Regioni del Nord. Ciò potrebbe peggiorare il distacco tra aree più ricche e più povere, facendoci trovare di fronte a un complesso di poteri territoriali disomogeneo e, come è stato detto, a un’amministrazione “arlecchino”. Le esigenze di efficiente coordinamento tra Stato e Regioni, che la pandemia mostrò inadeguate, potrebbero essere ancor più sacrificate».
– Che cosa prevede, a questo punto, l’iter e quali sono le tempistiche prevedibili?
«La legge n. 86 del giugno 2024 (Calderoli) si propone di specificare il procedimento per le Intese Stato-Regioni e i modi per definire i così detti Lep (livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, art. 117, comma 2, lett. m, Cost.). Qual è lo scopo dei Lep? Assicurare, in materie ritenute particolarmente importanti dalla riforma del 2001, che le prestazioni relative a tali diritti non possano in nessuna Regione scendere sotto una certa soglia. Le Intese che tocchino materie che riguardano i Lep non potranno concludersi prima della loro definizione. Si tratterà però di vedere se questa definizione dei Lep sarà soddisfacente o prevista troppo al ribasso.
Non tutte le materie richiedibili dalla Regione comportano la previa definizione della garanzia data dai Lep e quindi possono essere domandate da subito, pure in materie che destano, anche nella maggioranza che ha approvato la legge Calderoli, comprensibili preoccupazioni per l’unità nazionale (ad es.: i rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; il commercio con l’estero; le grandi infrastrutture). Il procedimento disegnato dalla legge Calderoli, fatto di tante tappe ma che può rivelarsi abbastanza scorrevole, privilegia i contatti tra il Presidente del Consiglio e il Governatore della Regione interessata (quasi un’anticipazione del premierato) a scapito del ruolo del Parlamento, che, a parte atti di indirizzo non vincolanti, arriva alla fine dell’iter trovandosi ad approvare un’Intesa consolidatasi nel rapporto tra esecutivi statale e regionale. E anche in relazione ai Lep il Parlamento gioca un ruolo non di primo piano».
– C’è dunque un rischio di avere un Italia a “diverse velocità” o sono previsti strumenti per contemperare la novità e far sì che ciò non accada?
«Il rischio c’è, pur essendo previste nella legge alcune cautele, per le Regioni con minore capacità fiscale per abitante, cioè le più povere. E resta l’interrogativo di come si concilierà l’assegnazione a ogni Regione delle risorse per finanziare integralmente le sue funzioni e l’assegnazione di risorse aggiuntive alle Regioni differenziate se tutto deve essere fatto senza oneri aggiuntivi di bilancio».
– Non ci riguarda da vicino, ma che cosa succederà nelle Regioni a statuto speciale?
«La legge Calderoli (art. 10) estende la sua applicazione anche alle Regioni speciali e alle Province autonome che non abbiano ancora adeguato i loro statuti dopo la revisione costituzionale del 2001. E intanto la Sardegna di recente ha presentato ricorso alla Consulta, temendo lesioni della sua autonomia costituzionalmente garantita».