Leggere la crisi, tra scienze e vissuti
Proseguono i lavori della sessione estiva del Segretariato attività ecumeniche
Si restringe il tempo per la prevenzione, il punto di rottura è sempre più vicino, la malattia può diventare incurabile. Entriamo in uno spazio incognito. Marco Marchetti, ordinario di pianificazione ecologica presso l’Università “La Sapienza” di Roma, membro del Tavolo di studio Custodia del creato della Cei, è intervenuto lunedì pomeriggio alla sessione del Sae di Camaldoli nel panel «Leggere la crisi, tra scienze e vissuti», a fianco della politologa Debora Spini, della New York University in Florence.
La relazione del docente si è articolata sulle tre grandi crisi attuali: la crisi climatica, la crisi della biodiversità e le diseguaglianze sociali nel mondo. Citando la definizione bergogliana che vede nei cambiamenti climatici antropogenici «un peccato strutturale scioccante», Marchetti ne ha esemplificati alcuni come le notti tropicali previste in tutta Italia questa settimana, le alluvioni, le tempeste e le ondate di calore che hanno visto un aumento di più 1,75 gradi oltre la media. «Il fatto nuovo è il ritorno di visioni antiscientifiche che mettono in dubbio una serie di certezze rispetto a quello che sta succedendo. La scienza ci dice che il cambiamento dell’uso del suolo e le energie fossili sono le due cause principali della crisi ecologica, eppure continuiamo a non agire. Cos’altro serve per smuoverci in maniera sostanziale?».
Un altro tema toccato da Marchetti, grande e pericoloso dal punto di vista politico, è il venire meno della fiducia nelle istituzioni. «Dopo ogni Cop, l’ultima a Dubai, nonostante gli impegni presi alcuni mesi dopo assistiamo a delle retroazioni a colpi di insostenibilità che passano sotto silenzio e che fanno aumentare l’indifferenza o il pessimismo di chi cerca invece di essere presente su questo tema. Ecco perché il papa stesso nella Laudate Deum 43 ha detto che non sarà più utile sostenere istituzioni che preservano il diritto dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti. È proprio quello che è successo a Dubai. Come fai a dire “fidatevi” ai ragazzi di Friday for future?».
«Le categorie con cui abbiamo letto la politica, con la crisi ambientale vanno in crisi – ha detto Debora Spini –.Alcune delle certezze che erano come fari adesso non funzionano più. Il grande sociologo Ulrich Beck ha coniato l’espressione “modernità deflessiva”: siamo ancora figlie e figli della modernità, che però è cambiata e ha avuto un effetto boomerang. Il progresso tecnico-scientifico ci aveva promesso nell’Ottocento un sempre maggior controllo del mondo che oggi ci sfugge di mano – ha rilevato Spini –. Un altro processo tipico della modernità occidentale che ha avuto un effetto boomerang è stato il modo di produzione che chiamiamo capitalismo. Tante cose sono cambiate anche in questo contesto. Marx diceva che il capitalismo non può esistere senza lo Stato. Oggi noi non possiamo dire che gli Stati servono a difendere il capitalismo, perché il capitalismo se li mangia».
La politologa si è poi soffermata su come la crisi ambientale metta in discussione due categorie politiche fondamentali: la sovranità e la democrazia. La sovranità moderna si fonda su “obbedienza contro sicurezza”. Questo fatto oggi non funziona più. La sovranità moderna è erosa dal di dentro. Nemmeno la Cina che è lo Stato più leviatanico del mondo fa il Leviatano. Il cambiamento climatico non lo ferma nemmeno l’esercito cinese».
Rispetto al concetto di democrazia, Spini ritiene «più complicato capire perché la crisi ambientale mette in discussione la democrazia, perché tutti i processi che chiamiamo globalizzazione mettono in crisi la democrazia. La democrazia moderna è nata dentro il guscio dello Stato nazionale che si chiude all’esterno e si apre all’interno per includere sempre più soggetti. Per un tempo le democrazie riuscivano a funzionare perché garantivano dei processi di redistribuzione, riuscivano a negoziare con il capitale e questo è fondamentale. Adesso è molto difficile per gli Stati moderni mantenere la promessa di controllare il pericolo. Il nostro tempo non è il tempo dell’invasore ma del rischio che è il di più di imponderabile di azioni intraprese autonomamente. Questo è uno degli aspetti fondamentali dell’antropocene, quanto del nostro agire umano non siamo in grado di prevenire e gestire».
La politologa ha citato ancora Beck nell’affermare che «in questo momento il cosmopolitismo è l’unica forma di realismo politico». La politica non è separabile dalla morale, come diceva Kant. Superare le forme della sicurezza hobbesiana è un imperativo morale. «In questo momento in cui la politica che impatta è quella che ci racconta che la nostra sicurezza è lasciare affogare i migranti nel Mediterraneo – ha concluso – occorre diventare cosmopoliti, se non altro per la nostra sopravvivenza, e spezzare il corto circuito tra pancia e testa che paralizza ogni nostra capacità di agire».
Nella foto di Laura Caffagnini, la professoressa Debora Spini