Compensazione di CO2: non è la soluzione

I lati oscuri del mercato dei crediti di carbonio e le sue implicazioni negative sul diritto alla terra di popolazioni già colpite dai cambiamenti climatici denunciati dall’Eper: il caso della Sierra Leone

 

«Per ogni articolo acquistato piantiamo un albero», «La nostra produzione è climaticamente neutra»: frasi come queste, che ci siamo abituati a sentire, nascondono una realtà tutt’altro che green.

In questi ultimi anni si sta parlando molto di compensazione dell’anidride carbonica (CO2) e di “crediti di carbonio” e relativi certificati, che le aziende possono acquisire per “compensare” le loro emissioni. Tutto troppo semplice per essere vero: in realtà, le emissioni non si “compensano” per nulla, restano lì dove sono, e l’equilibrio è solo nella nostra testa.

 

Questo “mercato” ha diversi lati oscuri, e soprattutto non risolve il problema alla radice, cioè l’eliminazione delle emissioni che causano l’effetto serra, configurandosi come un vero e proprio“greenwashing”, dal valore più pubblicitario che reale. Come del resto ha affermato l’Unione europea, dichiarando che l’etichetta “climaticamente neutro” si può definire come un’operazione di greenwashing.

 

Uno dei metodi più utilizzati è quello della riforestazione – rimboschimento che riguarda, manco a dirlo, i paesi del cosiddetto “sud del mondo”, che sono da un lato i meno responsabili dell’emissione di Co2 e al tempo stesso quelli che ne stanno pagando il prezzo più alto in termini di cambiamenti climatici.

Questa pratica, inoltre, entra in conflitto con i diritti delle popolazioni locali, privandole dei terreni necessari alla loro sussistenza. Insomma, per risolvere un problema se ne crea (almeno) un altro…

 

Perché il problema, come mostra un piccolo video dell’Eper (Entraide protestante suisse, conosciuta anche con la sigla in tedesco Heks), la diaconia delle chiese protestanti svizzere, sarebbero necessari 1,2 miliardi di ettari perché i governi mantenessero la loro promessa di “zero emissioni nette entro il 2060”, di cui la metà dovrebbe essere rimboschita: ma dove trovare un’area così grande, corrispondente a 18 volte la Germania? A ciò si aggiungono le più di 2700 multinazionali che hanno promesso di arrivare a “zero emissioni nette”, ponendo lo stesso problema.

 

E qui entra in gioco una delle aree d’azione dell’Eper, attiva in più di 30 paesi del mondo: il diritto alla terra e all’alimentazione (le altre sono diritto d’asilo e migrazioni, inclusione, giustizia climatica). L’Entraide ha curato una campagna di sensibilizzazione sugli aspetti controversi della compensazione di CO2 e raccolte fondi per finanziare progetti a sostegno delle popolazioni locali. L’impegno in materia di politiche dello sviluppo e sociali è uno dei mandati ricevuti dalla Chiesa evangelica riformata della Svizzera, che include anche il lavoro di inchiesta, come quello realizzato in Sierra Leone nell’ultimo anno.

 

Ne ha dato notizia in un articolo sul suo sito web all’inizio di maggio, raccontando come in questo paese un grosso progetto di compensazione della CO2 è stato avviato senza il necessario consenso della popolazione locale.

 

Coinvolte due aziende, la canadese Carbon Done Right e la Rewilding Company, legata alla prima ma con sede in Sierra Leone, che intendevano avviare delle piantagioni di alberi all’interno di progetti di compensazione di CO2, per un periodo di più di cinquant’anni (con un guadagno previsto di 300-450 milioni di dollari americani per le due aziende). Peccato che, come ha rilevato l’inchiesta condotta dall’Eper insieme a quattro ong locali, i proprietari dei terreni in questione non avessero approvato il progetto. Una violazione della legge del paese, sicuramente, ma anche del principio del “consenso preventivo, libero e informato” seguito da Verra, organizzazione che si occupa di certificare i “crediti carbonio”. 

 

Dall’inchiesta, si legge nell’articolo, è emerso che non erano state seguite le procedure di informazione e raccolta del consenso per numerose delle famiglie coinvolte, con una doppia discriminazione nei confronti delle donne, violando quindi i loro diritti fondiari.

Le implicazioni erano molte, parliamo di un’area di 25.000 ettari (= 250 Km2 = circa due volte l’area del Comune di Torino) su cui come detto i guadagni da parte delle aziende sarebbero rilevanti, molto meno quelli spettanti ai proprietari dei terreni, 14 dollari per ettaro all’anno (a fronte di un fatturato di 360 dollari).

 

Una tariffa molto bassa, legata forse anche alla qualificazione dei terreni, giudicati “non fertili”, sebbene coltivati da sempre.

Un successivo articolo di qualche giorno fa, intervista a Lansana Hassan Sowa, responsabile dei programmi dell’organizzazione Sierra Leone Network for the Right to Food (SilNoRF), ricorda che già dieci anni fa queste popolazioni erano state espropriate dalle multinazionali per far posto a piantagioni di palma da olio, e a fatica erano rientrate in possesso delle loro terre: e ora gli stessi investitori sono tornati…

 

Lansana Hassan Sowa racconta che i responsabili del rapporto (pubblicato dopo più di un anno di discussioni con i proprietari, le autorità locali e governative, i rappresentanti delle aziende investitrici) prima ancora della pubblicazione hanno ricevuto minacce e false accuse, ma nel frattempo è emerso che effettivamente Rewilding Company, non aveva le autorizzazioni necessarie.

 

Intanto alcuni alberi sono già morti e il pericolo di incendi rende la situazione ancora più critica. Ed è solo un piccolo esempio di quanto accade spesso, denuncia l’Eper, e che rende questa pratica inefficace, oltre che lesiva dei diritti. Invece di aiutare le popolazioni locali ad affrontare i cambiamenti climatici, a preservare gli ecosistemi e la biodiversità, li si priva delle poche risorse.

 

Kayinbo Stammesgebiet, 490.903 Zugang zu Land statt Hunger (Region: Sierra Leone (Afrika)

 

 

Foto: Toni Bernet Eper/Heks