Ismail Kadaré, maestro di mitologie collettive e personali

Il ricordo del grande scrittore albanese, morto il 1° luglio all’età di 88 anni

 

È morto il primo di luglio Ismail Kadaré, albanese, aveva 88 anni. Maestro di mitologie collettive e personali, su cui ha costruito la lettura del mondo e di se stesso.  Mitologie plausibili e non semplici fandonie.

 

Ha scritto moltissimo, romanzi, saggi e raccolte di poesie. Buona parte della sua sterminata opera è stata tradotta in italiano oltre che in un gran numero di lingue non solo europee, spesso avendo come base una traduzione francese invece che l’originale. Anche in Italia, nonostante l’albanologia sia particolarmente sviluppata in alcune università.

 

Una produzione così cospicua non può che avere i suoi alti e bassi, ma Kadaré si fa comunque leggere così come appare, affascinando per gli intrecci di  storie entro contesti storico-culturali diversi. Il miracolo avviene fin dal suo primo capolavoro, Il generale dell’armata morta (1963), diventato poi (1983) un gioiello di film per merito di Luciano Tovoli, regista, e di Marcello Mastroianni, Michel Piccoli, Anouk Aimée e di un esordiente Sergio Castellitto.

 

Altri romanzi, pur muovendosi dentro mitologie balcaniche, omeriche o contemporanee, mantengono intatta questa possibilità di lettura senza per forza richiedere la diffusa pratica di scavalcamento del testo per aprire la caccia ai significati inediti e nascosti.  Il disvelamento di allegorie e metafore come obiettivo spesso primario della critica. Per nostra fortuna i mondi paralleli da lui creati non sono mai così lunari da non contenere anche il nostro mondo e i nostri sogni.  Includendo anche quella cosa che chiamiamo politica intesa come la trama delle relazioni tra singoli e tra gruppi. Kadaré in sostanza è una grande lettura nonostante Kadaré.

 

Nonostante la sua personale mitologia che l’ha condotto nel 1990, a pochi mesi dal crollo del regime nazional-comunista albanese, a chiedere asilo politico alla Francia. In quanto perseguitato e nello stesso tempo esponente di rilievo della nomenklatura.

Ossessionato da questa contraddizione da allora l’ha sacralizzata facendone lo stendardo della sua rivendicazione. In Europa hanno abboccato subito impiegando l’unica categoria nota, quella di dissidente. Ma i dissenzienti si meritavano decenni di carcere e lavori forzati. Kadaré è un grande scrittore non un grande eroe. Una figura non sottintende per forza l’altra. Ci fu lo scrittore Mehmet Myftiu, per citarne uno dei tanti, che manifestò pubblicamente contro l’arresto di un collega, Kasëm Trebeshina, e fino a dispotismo vigente lo potevi incontrare nel suo chiosco di tabacchi  nella centrale via delle Barricate a Tirana, sorridente e gentile.

 

Il cruccio di Kadaré era dimostrare che l’Albania è Europa, preferibilmente cristiana, che ha un’anima (?) schiettamente europea e che l’Impero Ottomano era solo barbarie. Impelagandosi a inizio Duemila anche in una feroce polemica sul tema sempre regressivo dell’identità con Rexhep Qosja [da pronunciarsi suppergiù: Regep Ciosia], notevole personalità di studioso e scrittore kossovaro – ricordo una sorprendente conversazione a Pristina, ahimè trent’anni fa- che invece rivendicava l’importanza della cultura musulmana non solo per l’area albanese, ma per l’Europa stessa. Di questo rilevante confronto in Italia non si è mai visto traccia, non a caso.

 

Di Ismail Kadaré ci resta il nostro caparbio incantamento per la sua scrittura e lo sgomento per la sua inutile e personale omertà.

 

Nota: di Rexhep Qosja è reperibile La morte mi viene da occhi così. Tredici racconti che potrebbero fare un romanzo, trad. di Anila Alhasa, Egnatia, Genova, 2019

 

 

 

Foto di Adam Jones