piobbico

Il costo sociale del profitto

Le leggi sul lavoro e sul movimento dei migranti non garantiscono la loro dignità: i prezzi bassi sono figli dello sfruttamento

 

Negli stessi giorni in cui ancora una volta il Mar Mediterraneo inghiottiva decine di innocenti, davanti alle coste di Lampedusa e nel Mare Jonio nelle campagne di Latina un lavoratore bracciante di origine indiana Satnam Singh moriva dopo essere stato abbandonato dal proprio datore di lavoro sulla strada dopo un incidente gravissimo nel quale aveva subito l’amputazione del braccio per opera di un macchinario agricolo.

 

Dopo questo incidente la comunità indiana del Lazio ha diramato un comunicato che mi ha fatto molto riflettere. «Tutte le manifestazioni effettuate negli anni precedenti – scrivono i rappresentanti della Comunità – contro lo sfruttamento dei nostri fratelli che lavorano in agricoltura, insieme a quelle in cui abbiamo manifestato contro politiche immigratorie che non danno nessuna risposta alle nostre necessità insieme al ritardo e/o il mancato rilascio di un permesso di soggiorno, sono da sempre state considerate da parte nostra come il primo passo verso lo sfruttamento». Il soggetto sociale che prende parola dopo questa vicenda vive sulla propria pelle gli effetti che producono le politiche dei governi e ha più di tutti chiaro quale sia il problema che si dovrebbe affrontare. La libertà di movimento è collegata alla lotta contro lo sfruttamento».

 

Potremmo sostenere leggendo queste righe che esistono due grandi linee normative che intervengono limitando i diritti dei lavoratori migranti e la loro libertà: l’impianto normativo sulle leggi sulla cittadinanza determinato dalla legge Bossi-Fini e quello sul lavoro determinato dal Jobs Act. Sappiamo benissimo infatti che se le persone potessero viaggiare liberamente come noi occidentali sopra le frontiere, queste non prenderebbero la via rischiosa del mare e arriverebbero nel nostro paese senza rischiare la vita e con piena dignità. Ma nel mondo globalizzato, dove le merci possono viaggiare senza troppi problemi, gli individui poveri, i subalterni che si spostano per cercare un salario migliore non hanno la stessa libertà degli imprenditori che hanno libertà di movimento per aprire produzioni dove è loro più conveniente. Sappiamo inoltre che dentro i luoghi di lavoro il rapporto di potere, anche per effetto del processo di frammentazione dei contratti e della diminuzione delle tutele determinatosi con l’introduzione del Jobs Act, ha diminuito il potere di difesa dei lavoratori.

 

Quello che dovremmo quindi chiederci è come sia possibile che in Italia la condizione materiale di vita dei lavoratori migranti possano essere ridotta a livelli di barbarie come è avvenuto nelle campagne del Lazio nel giugno 2024 cercando di capire quanto e come le leggi sul lavoro e sull’immigrazione incidano su questa dinamica.

 

Per gli stranieri, il rischio di rimanere vittima di un incidente mortale è più che doppio rispetto agli italiani. L’incidenza infortunistica per i lavoratori migranti è di molto superiore alla media nazionale. Un dato che va letto considerando sia la mancata informazione sui rischi sul lavoro sia i ritmi di lavoro imposti, le condizioni di lavoro, la condizione sociale di questi lavoratori che subiscono per effetto di una politica continua di razzializzazione. Bossi-Fini e Jobs Act sono quindi due normative figlie della globalizzazione liberista che nascono in simbiosi e sono le due norme che dovremmo mettere sul banco degli imputati rispetto a questa vicenda e alle molte altre che drammaticamente si stratificano tragedie dopo tragedia, in terra e in mare. Potremmo quindi sostenere che fino a quanto sarà negata la libertà di movimento avremo sfruttamento, e che lo sfruttamento avviene perché i lavoratori migranti non hanno potere di difendersi.

 

Il tema centrale dal mio punto di vista è quello di riequilibrare il rapporto di potere tra imprese e lavoratori. Possiamo infatti proporre che nelle campagne ci vogliono più ispettori del lavoro, ma se i lavoratori non hanno il potere di difendersi perché la legge li rende vulnerabili, questi non saranno mai sufficienti. Possiamo giustamente pretendere e rivendicare che i permessi speciali vadano trasformati velocemente in permessi di lavoro, ma fino a quando la libertà di movimento sarà negata, non potremo mai parlare di dignità dei lavoratori. Si fa strada allora la richiesta, per certi aspetti visionaria, come lo era quella delle 8 ore lavorative due secoli fa, di iniziare a legare la libertà di movimento con la rivendicazione di un salario minimo al quale legare le politiche dell’abitare. Ovvero l’idea di prendere in mano il tema della mobilità non semplicemente nel suo tecnicismo umanitario che riconduce tutto a una categoria, come quella del richiedente, asilo ma all’interno di una rivendicazione politica generale, ovvero come diritto inalienabile di ogni lavoratore e lavoratrice collegato a un pacchetto di diritti sociali da rivendicare sia all’interno delle catene del valore sia sulle frontiere.

 

I lavoratori migranti non sono utili per la nostra economia, non sono un problema di ordine pubblico. Sono essere umani che devono vivere nel diritto e nella libertà, vivere con la nostra stessa dignità. Nel nostro piccolo a esempio stiamo costruendo una campagna nella zona di Gioia Tauro per chiedere alla filiera agricola di contribuire direttamente all’accoglienza degna dei lavoratori braccianti con una tassa di scopo di un centesimo al kg per contribuire a un fondo che permetta lo sviluppo di politiche dell’abitare e dei trasporti pubblici.

 

È una proposta che va nella direzione che ho cercato di descrivere, perché lega il tema dell’accoglienza alla responsabilità sociale di una filiera agricola che ha usato, e usa, il lavoro migrante come unica variabile per reggere la competitività dei prezzi. Quel sottocosto che vediamo pubblicizzato nei banconi dei supermercati della Grande distribuzione organizzata ha però un sopra costo sociale che vediamo solo quando il livello di violenza che subiscono questi lavoratori tracima in superficie.

 

 

Francesco Piobbichi, disegnatore sociale, operatore nel progetto Mediterranean Hope