Regioni, diaconia e società

L’autonomia differenziata, provvedimento approvato da pochi giorni, rappresenta un tema cruciale per il prossimo futuro: si fa strada il rischio che aumentino le disuguaglianze a tutti i livelli

 

 L’autonomia differenziata, che implica la concessione di poteri più ampi in funzione delle richieste delle singole Regioni italiane, è al centro di un acceso dibattito che tocca profondamente la governance, l’equità e la coesione territoriale del Paese. Questo tema, apparentemente giuridico e amministrativo, coinvolge la Chiesa e la diaconia, poiché incide significativamente sulla vita delle persone e sulla riduzione delle diseguaglianze, e quando si parla di riduzione di diseguaglianze si parla di evangelo e di diaconia. Quando la struttura del welfare, che alcuni considerano il più grande e organico “servizio diaconale”, viene messa in discussione, la Chiesa non può rimanere in silenzio.

 

La riforma prevede che le Regioni possano richiedere l’autonomia in 23 materie specifiche. Questo solleva, prima di tutto, seri interrogativi sulla capacità amministrativa del nostro Paese, che non ha tradizioni secolari di federalismo come la Svizzera, di gestire efficacemente diversi livelli di governance, per di più non omogenei sul territorio nazionale. Per ogni materia saranno emanate leggi regionali e istituiti appositi apparati amministrativi, che apriranno, con ogni probabilità, conflitti istituzionali fra Regioni e con il livello centrale.

 

Fra le materie indicate dalla riforma dell’autonomia c’è la tutela della salute, un tema che la testimonianza delle nostre chiese ha sempre avuto molto a cuore. È quindi con preoccupazione che osserviamo le conseguenze di una ancora più marcata “regionalizzazione” della Sanità. Le Regioni da anni si occupano della Sanità con ampie deleghe, ma i risultati sono contrastanti: esiste una forte disparità nell’accesso ai servizi sanitari tra le diverse Regioni. Questo fenomeno ha generato una migrazione sanitaria strutturale, con oltre 4,2 miliardi di euro trasferiti ogni anno dalle Regioni del Sud a quelle del Nord per le prestazioni sanitarie fornite ai pazienti costretti a spostarsi al fine di ottenere cure adeguate. L’impegno deve essere volto a ridurre questo fenomeno e non porre le basi per un ulteriore allargamento della forbice della diseguaglianza sanitaria su base territoriale.

 

L’antidoto all’aumento delle diseguaglianze a seguito di processi di autonomia è la definizione dei “Lep”, cioè dei Livelli essenziali delle prestazioni che, a dire il vero, erano già previsti dalla riforma del federalismo fiscale del 2009, ma che a distanza di 15 anni sono ancora tutti da costruire. Si tratta di definire uno standard adeguato di prestazioni e servizi nelle materie di salute, istruzione, assistenza sociale, trasporti che deve essere garantito in modo omogeneo a tutti e tutte su tutto il territorio nazionale. Non è un argomento che riguarda solo le fasce marginali della società, ma riguarda, a esempio, anche i servizi extrascolastici o i nidi per l’infanzia, che in Emilia o in Toscana sono presenti in misura quattro volte maggiore che in Sicilia e dieci volte rispetto alla Campania o alla Calabria. E poi la questione sempre più centrale dei trasporti, che riduce alla marginalità i territori non collegati e tutti i loro abitanti.

 

L’individuazione dei Lep comporta la loro applicazione, che non potrà prescindere da un finanziamento con risorse aggiuntive e un diverso calcolo nella ripartizione delle risorse pubbliche: così arriviamo al tema centrale delle risorse e della fiscalità. Alcuni difensori della riforma dell’autonomia differenziata tengono a sottolineare che essa non avrà nessun impatto sulla fiscalità, che non costerà niente alla collettività, ma proprio questo è il punto debole della riforma, perché non c’è nessuna azione perequativa che possa prescindere da un rinnovato criterio per la distribuzione delle risorse, a meno che non si faccia riferimento alla spesa storica, come si è fatto finora, che non fa altro che perpetuare la diseguaglianza: il buon samaritano, quando ha lasciato il ferito all’oste ha messo mano al portafoglio e si è fatto carico delle risorse necessarie. Su questo bisogna essere molto chiari: se questa riforma nasconde la volontà, negli anni scorsi neppure tanto celata dai suoi promotori, che le Regioni ricche gestiscano autonomamente il loro gettito fiscale (tradotto: che non contribuiscano più alla coesione nazionale contribuendo ai servizi generali per le regioni più povere), allora ci sono seri motivi per preoccuparsi anche per la tenuta del paese.

 

Non ci sono perplessità ideologiche sull’autonomia integrativa prevista dall’art. 5 della Costituzione: anzi, le autonomie territoriali per la vicinanza alla cittadinanza sono spesso in grado di dare risposte più coerenti con i bisogni; i dubbi sono in ordine, piuttosto, a come questa riforma è pensata, strutturata e a quali sono i suoi reali obiettivi. La tradizionale vocazione europeista delle chiese valdesi e metodiste ha sempre riservato una grande attenzione ai territori: il pastore Franco Giampiccoli, in tempi non sospetti, aveva ricordato quanto fossero (anche) protestanti le radici della sussidiarietà. Le perplessità non nascono da un pregiudizio culturale e non si vuole cadere nella polarizzazione del dibattito politico, ma esprimere preoccupazione e timore per una riforma che rischia di aumentare piuttosto che ridurre le diseguaglianze sociali, economiche e di accesso ai diritti di cittadinanza nel nostro paese.