Una chiesa sotto la croce

La testimonianza dell’evangelista Ivano De Gasperis, a margine del pellegrinaggio di pace in Terra Santa, organizzato dalla Diocesi di Bologna

Da qualche ora è finita l’ennesima manifestazione per la pace alla quale un manipolo di rappresentanti delle nostre chiese ha preso parte. Passeggio col mio cane nei paraggi della Chiesa battista di Milano-Pinamonte. Un altro cane si avvicina al mio per annusarlo. Scodinzolano entrambi. Accenno un sorriso al padrone, che risponde timidamente; sembra voler passare oltre, ma poi si ferma e con astio mi dice: «Sei con Hamas? Sai che quella cosa che porti al collo significa che sostieni l’omicidio dei bambini ebrei?». Porto la mano al collo e mi ricordo di indossare una vecchia kefiah. Stringendola fra le dita, dico: «No, non sono con Hamas. Sono con i bambini del nostro ospedale di Gaza, con chiunque, in Israele o in Palestina, viene oppresso». L’uomo cambia tono, mi dice che il suo migliore amico è tuttora nelle mani dei rapitori. Ci abbracciamo e parliamo insieme. Per caso l’indomani ci rincontriamo. Mi presenta sua moglie e la sua bambina. All’apparenza sembrano calmi ma nel profondo sono spaventati. Il loro cuore è pieno di dolore, presto partiranno per Israele, invitandomi ad andarci. Prometto loro che, a Dio piacendo, lo farò. Andare in Terra Santa, ma come, quando e per far cosa?

Queste domande hanno trovato un ascolto attento nel presidente dell’Unione battista e presso il gruppo degli ambasciatori e delle ambasciatrici di pace dell’Ucebi. La risposta sorprendentemente è giunta dalla Diocesi di Bologna, che ha organizzato un pellegrinaggio di pace in Terra Santa. Ecco “il treno” che stavo aspettando! Alcune telefonate, qualche e-mail, e alla richiesta di un evangelista battista che desidera aggiungersi al gruppo di pellegrini cattolici, il cardinale Matteo Zuppi risponde: “Bene!”. Si parte!

Già capofila in tante missioni con Sant’Egidio, ora presidente della CEI e arcivescovo di Bologna, Zuppi incoraggia l’intera delegazione a compiere questo viaggio con lo spirito di chi va a “far visita a un amico che sta male”.

In pochi giorni facciamo 25 incontri, ascoltiamo tantissime persone, dormiamo pochissimo. Ci spostiamo tra Israele e Cisgiordania, ma più che visitare i luoghi della fede, gli antichi edifici fatti di pietra, incontriamo “pietre viventi”, testimoni della fede, che ci raccontano il dolore, lo smarrimento, la rabbia, la paura. L’impotenza e la sconfitta. Le persone incontrate, “piccole” e “grandi”, sono pietre che gridano!

Tra le impressioni più profonde, al momento, quella della signora Rachel Goldberg-Polin: «ci fanno sentire come pedine il cui dolore è strumentalizzato da politici senza scrupoli per raggiungere i loro obiettivi». Questa donna ebrea tuttora attende il ritorno del figlio rapito Hersh, al quale hanno amputato il braccio sinistro. Donna di pace che rifiuta di distinguere il suo dolore da quello delle altre madri palestinesi i cui figli sono stati strappati via, e invoca una svolta per tutti/e.

Non meno potente la testimonianza di chi riconosce che la guerra non serve a nessuno e che, anzi, peggiora le cose per tutti, tranne che per i politici, gli affaristi e mercanti di armi. La violenza dell’occupazione, del terrorismo e della guerra, sta peggiorando la vita di tutti.

Un brivido ci ghiaccia il cuore a sentire la voce strozzata di una docente universitaria ebrea che ci racconta dei giovani universitari di Gerusalemme avvelenati dalla retorica nazionalista. Qualcosa mi torce lo stomaco quando sento di giovani operatori di pace depressi, uno dei quali si è tolto la vita. Gli stessi ragazzi che sono con me piangono, impotenti. La fede in Dio, negli uomini e in noi stessi, vacilla. Cosa possiamo fare?

È un tempo buio. È il tempo dell’angoscia del Getsemani. È un’ora molto buia nella quale restare sotto la croce non è inutile. Accogliamo impotenti i lamenti del crocifisso che da Gaza ci dice il suo dolore attraverso la disperazione dei pescatori inchiodati alle loro tavole da surf perché privati delle stesse barche. Il sindaco di Betlemme, i leader religiosi, i pastori del gregge, il responsabile Onu per gli approvvigionamenti in Gaza, tutti si scoprono impotenti.

Chi viene qui non trova pace e speranza, mi viene detto da un uomo che mi trova perso per le vie di Betlemme, ma porta pace e speranza.

Purtroppo, raggiungere Gaza risulta impossibile, ma con gli altri centosessanta compagni e compagne di viaggio siamo comunque riusciti a far giungere il nostro messaggio e i nostri aiuti a chi più sta soffrendo la piaga della guerra.

La telefonata di don Gabriel Romanelli da Gaza ci dice dello strenuo impegno della chiesa, luogo di speranza e di rifugio sotto le bombe, che raccoglie e sostiene tanti giovani e bambini, in maggioranza musulmani. Ci giunge il suo ringraziamento, come quello di tutti i palestinesi e gli israeliani che incontriamo, grati per la nostra vicinanza, per esserci stati, per ascoltarli. “Non lo dimenticheremo”, ci è stato detto.

Neppure noi potremo dimenticare il Nostro Dio, i nostri fratelli e le nostre sorelle, le nostre madri e i nostri figli sotto la croce. La missione non è compiuta, però, è appena cominciata.