Nel Dio sofferente una nuova escatologia
Il lascito di Jürgen Moltmann, da poco scomparso, nella teologia del secondo 900
Con Jürgen Moltmann è morto uno dei più influenti teologi protestanti della seconda metà del XX secolo. Mentre gran parte del pensiero teologico sistematico verteva ancora intorno alle questioni aperte del XIX secolo, la sua Teologia della speranza (1964) entrava negli orizzonti del XXI ispirando numerose teologie liberazioniste e postcoloniali, soprattutto le teologie della liberazione del Sudamerica e la Black Theology degli anni ’60 e ’70. Moltmann, cercando di reinterpretare la teologia evangelica nel quadro del secondo Novecento, ha aperto la strada a una teologia e a una fede che guardano in modo critico alla chiesa e alla società. Questo è stato frutto anche del dialogo con la moglie, la teologa Elisabeth Moltmann-Wendel e con il femminismo, che l’hanno portato a riconoscere che l’antropologia cristiana non si può esaurire nell’andrologia.
Facendosi ispirare dal Principio Speranza (Ernst Bloch), la Teologia della Speranza di Moltmann ha senz’altro intercettato lo spirito del suo tempo (Zeitgeist). Ma il grande riconoscimento e la ricezione internazionale dell’opera sono conseguenza di una escatologia capace di mettere in contatto cielo e terra e di leggere la loro relazione in termini nuovi:
Nella Teologia della Speranza, Moltmann critica la convenzionale dottrina delle cose ultime, che irrompono dall’aldilà nella storia su questa terra e vi pongono fine. Il fulcro dell’escatologia teologica sta invece nella speranza dinamica: «Il cristianesimo è escatologia dal principio alla fine, e non soltanto in appendice: è speranza, è orientamento e movimento in avanti e perciò è anche rivoluzionamento e trasformazione del presente». In tal modo la speranza diventa motore e veicolo del pensiero teologico e della prassi etica. Forse più di ogni altro in teologia, Moltmann ha preso sul serio ciò che Karl Barth aveva scritto nel 1921: «Un cristianesimo che non è completamente e totalmente escatologia non ha proprio assolutamente nulla a che fare con Cristo».
Dalla Teologia della Speranza, nella quale Moltmann parte dalla promessa pasquale, il suo pensiero si rivolge poi verso la croce (Il Dio crocifisso, 1973): Per Moltmann essa costituisce la chiave ermeneutica della teologia cristiana e definisce così il dolore e la sofferenza “concreti” come luogo centrale del pensiero teologico. «Solo il Dio sofferente può aiutare»: questa affermazione di Dietrich Bonhoeffer in carcere (1944), diventa il punto focale per Moltmann. Come luogo in cui Dio si identifica con i perduti e abbandonati, la croce diventa anche critica di ogni tradizione che sposta Dio in uno spazio di eternità apatica e funge nello stesso momento da lente di ingrandimento per le strutture politiche e sociali che sottomettono le persone e le rendono vittime. La teologia della croce di Moltmann ha come punto di partenza non un concetto astratto, ma una crisi.
Nel suo libro La Trinità e il Regno di Dio (1980), Moltmann mette al centro del discorso su Dio il pensiero trinitario cercando di elaborarlo al di fuori degli schemi gerarchico-patriarcali: «Solo se la dottrina della Trinità vince l’idea monoteistica del grande monarca del mondo in cielo e del divino patriarca nel mondo, i potenti, i dittatori e i tiranni sulla terra non troveranno più giustificazione negli archetipi religiosi».
Se si ricostruiscono le linee delle sue grandi opere si nota un movimento oscillatorio nel pensiero che porta lo sguardo dal centro alla periferia, dall’alto in basso, mettendo in comunicazione il messaggio biblico con il mondo esistente. Per questo la dimensione teologica e quella politica, per Moltmann, vanno di pari passo non nel senso di una politicizzazione della teologia, bensì di un’analisi critica e autocritica del messaggio biblico e delle sue implicazioni politiche. Mentre la contestualità di ciò che succede nella chiesa, poiché influenza il pensiero teologico, viene di solito riconosciuta solo indirettamente o a posteriori, la teologia di Moltmann la affronta in modo consapevole, riconoscendo proprio in essa l’oggetto della riflessione (auto-) critica.
La sensibilità particolare per il contesto si connette alla fede personale di Moltmann, che nasce in un momento di crisi. Cresciuto in una famiglia benestante ma senza legame particolare con la chiesa, Moltmann viene chiamato all’ età di 17 anni (!) nell’esercito tedesco. Come aiutante dell’aeronautica, sopravvive a malapena alla “Operazione Gomorra” della Royal Airforce nel 1943. L’amico che gli stava accanto fu dilaniato da una bomba. In un’intervista, Moltmann racconta: «Quella notte ho gridato per la prima volta: “Mio Dio, dove sei?”». Il grido come forma esistenziale di preghiera apre per Moltmann il dialogo con Dio. Come prigioniero e sopravvissuto agli orrori della guerra, riconosce poi i crimini tedeschi contro l’umanità, che lo portano alla domanda: “Dio, dov’eri?”. A partire dagli anni ’70, nella Teologia dopo Auschwitz, Johann Baptist Metz, Dorothee Sölle e Jürgen Moltmann si oppongono alla cultura dell’oblio e della repressione e cercano di rinnovare il dialogo ebraico-cristiano.
Come prigioniero di guerra degli inglesi, il diciannovenne Moltmann cerca «conforto nella vita e nella morte […] e lo trova attraverso la lettura della Bibbia e attraverso l’immeritata gentilezza dei cristiani scozzesi e inglesi». Inizia poi gli studi di teologia e filosofia a Gottinga «per scoprire se e, in caso affermativo, quale verità si trova in Cristo».
La teologia di Moltmann nasce come teologia contestuale e dialogica e come tale è aperta ai suggerimenti e agli impulsi di altre chiese e religioni, il che ha permesso a Moltmann di diventare un interlocutore di primo piano anche nel dialogo tra i movimenti carismatici e la teologia accademica, essendo tra i primi a confrontarsi con le chiese pentecostali che aveva conosciuto in Sud America e in Corea del Sud e cerca il dialogo anche con l’ortodossia orientale.
In occasione della sua morte si è alzato di nuovo il lamento secondo cui i grandi teologi e le grandi teologie non esisterebbero più. Ed è vero che la teologia di oggi è molto più frammentaria, meno “sistema” e più ricerca. Forse possiamo leggere questo cambiamento in modo positivo, come prova dell’efficace eredità di una teologia che non cerca di stabilire scuole o maestri, ma si fonda sulla ricerca della verità di Cristo nel dialogo. In quest’ottica, la gratitudine per la vita di Jürgen Moltmann supera anche il dolore per la sua scomparsa.