Dalla Terra viene un grido di dolore che dobbiamo cogliere

L’allarme che ripetutamente viene lanciato, soprattutto dalle giovani generazioni, interpella le chiese: una consapevolezza biblica ci può rendere rendere attenti e attivi nel nostro ruolo di custodi del Creato

 

Grandinate a giugno, fiumi che esondano e trascinano tutto quello che incontrano, sole che si alterna nel giro di poche ore a forti nubifragi possono accadere: è successo in passato. La differenza con i tempi passati risiede nel fatto che eventi rari e sorprendenti sono diventati “normali”, nel senso che ormai ci meravigliamo ben poco. Sono segnali inequivocabili di un mutamento che il nostro pianeta sta vivendo a partire dall’epoca industriale, con una forte accelerazione negli ultimi decenni. Le evidenze scientifiche prodotte negli ultimi anni parlano di punto di non ritorno, un giro di boa che costringe l’essere umano a un’inversione di tendenza radicale. Noi siamo gli attori principali di questo mutamento, poiché generato dal nostro agire, dalle nostre scelte, dall’atteggiamento che abbiamo riservato alla Terra e alle sue risorse: benvenuti nell’antropocene!

Quotidianamente leggiamo o ascoltiamo notizie di giovani – e meno – che protestano contro governi o aziende, per richiamare l’attenzione di chi il potere lo detiene sull’urgenza della situazione che sembra aprire un profondo baratro; e perché soprattutto le nuove generazioni sentono la pesantezza e la paura di ricevere un mondo marcescente, l’ansia di essere “ultima generazione” prima che la desolazione totale prenda il sopravvento.

Sebbene i governi abbiamo risposto a volte con riluttanza al grido rabbioso degli e delle attiviste, il presente ha imposto un ragionamento celere e indifferibile e, soprattutto, concreto. A livello nazionale e internazionale si disegnano vie, per giungere a risultati a medio termine: si parla di transizione ecologica, di agricoltura sostenibile, di fonti d’energia rinnovabili, di creazione di nuove infrastrutture e di messa in sicurezza del territorio contro i rischi geo-idrologici, eccetera. Questo l’impegno improrogabile dei governi; solo che l’essere umano tende a vivere per delega: la situazione ambientale non può essere esclusiva prerogativa di ministri, sindaci o assessori. L’allarme lanciato dalla Terra è un grido di dolore e disperazione che va colto come singoli e come comunità civile.

All’interno di questa società viviamo e ci muoviamo anche noi che diciamo di credere: credere in chi? Credere in Dio: non in qualche divinità generica, ma in Colui che si è rivelato alle donne e agli uomini, si è fatto vicino mediante opere e parole, si è reso visibile nell’uomo Gesù, il Cristo, e permane nel mondo come Spirito santo.

Come credenti, oltre ai dati scientifici che descrivono l’universo, ci è stata donata una Weltanschauung (visione del mondo) che ci permette di vedere la totalità della realtà non semplicemente come natura, con le sue leggi, con il suo volto duro e minaccioso, bensì come creazione. Il Dio che ha parlato all’essere umano, che ha agito come liberatore del popolo eletto, è il Dio che ha fatto il tutto e lo ha fatto «buono» (Gen. 1).

Il salmista riconosce questa condizione e canta dicendo: «Alzo gli occhi verso i monti… Da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto vien dal SIGNORE, che ha fatto il cielo e la terra.» (Sal 121,1-2). Sono parole che ci toccano più che mai, dal momento che il tempo presente disegna futuri spaventosi, in cui ci si vede circondati da imminenti e inesorabili pericoli. Il Signore che ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che essi contengono (Sal 23, 1) è colui che ascolta e accoglie il grido dell’essere umano, è colui che stende la destra e invia l’aiuto all’opera delle sue mani.

Le parole dei Salmi ci invitano a volgere alla realtà creata uno sguardo rinnovato: l’urgenza della cura del creato permane, l’urgenza di soccorrere il povero rimane prioritaria, l’impellenza di attualizzare politiche a marchio ecologico non può essere elusa; in tutto questo, l’elemento del “nuovo” prende corpo nella speranza, speranza che non si fa ridurre a banale ottimismo nel momento della tempesta, bensì nella certezza che l’azione di Dio regge e governa l’universo, mentre a noi è dato un comandamento di cura e gestione dell’unico pianeta che ci è stato messo a disposizione.

La cura della creazione, poterla utilizzare, trasformare, è un privilegio donato, non scontato e gratuito: un atteggiamento di rapina straripa dall’originale progetto di Dio. Sono persuaso che l’originale piano del Creatore possa essere sintetizzato nella parola di Cristo: «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo, simile a questo, è: «Ama il tuo prossimo come te stesso». (Mt 22, 37-39).

Amare Dio determina un cambiamento profondo su più piani: trasforma e rinnova, cura le relazioni umane segnate dalla fragilità del peccato, portando riconciliazione. È dall’amore per il Dio creatore da cui fluisce in noi la capacità di amare l’altra e l’altro: più precisamente, l’altro da me non sono solo altri uomini e donne, bensì ogni cosa fatta dalla medesima mano divina. Amando tutte e tutti – umani, animali, piante, risorse – si può avviare a livello individuale e come società un percorso non solo di rinnovamento ecologico, ma di radicale conversione capace di rivoluzione, confidando che essa poggia non tanto sulle nostre flebili capacità, ma sulla Parola affermativa, pronunciata da Dio. In questo cammino, in ascolto di questa parola, sospiriamo: Manda il tuo Spirito, Signore, e rinnova la faccia della terra.