Chi ha ucciso Satnam Singh
La morte del lavoratore indiano abbandonato in strada agonizzante interroga tutto il modello produttivo
È morto ieri mattina all’ospedale San Camillo di Roma Satnam Singh, 31 anni, di origine indiana, lasciato in strada agonizzante il giorno precedente. Accanto a lui, appoggiato su una cassetta della frutta, il suo braccio destro, che gli era stato staccato di netto da un macchinario avvolgi plastica, in un incidente sul lavoro in un’azienda agricola di borgo Santa Maria, nella campagne in provincia di Latina. Il suo datore di lavoro, di “lavoro in nero”, è accusato di omissione di soccorso, violazione delle disposizioni in materia di lavoro irregolare e omicidio colposo. E’ possibile che sia valutato anche il reato di caporalato.
L’unione Sikh Italia ha espresso il suo cordoglio in un comunicato, dicendosi «a lutto per la morte del fratello Satnam Singh, rimasto ucciso mentre lavorava in condizioni precarie e con mezzi inadeguati e obsoleti. L’unione Sikh Italia, stringendosi alla famiglia e agli amici di questo fratello, denuncia la situazione di insicurezza in cui tanti lavoratori immigrati sono spinti a lavorare. Il caso – continua l’organizzazione – è tanto più grave perché a Satnam sono state negate le cure urgenti che forse avrebbero potuto salvargli la vita. Si tratta di una omissione di soccorso che, oltre a costituire un grave reato penale, offende i più elementari sentimenti di umanità e che rende evidente il contesto nel quale lavorano tanti immigrati. Come tante volte ha affermato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, questa strage continua non è tollerabile per un paese civile e democratico che pone il lavoro al centro della vita della Repubblica».
Di qui «un appello alle forze politiche, sindacali, alle organizzazioni d’impresa perché insieme agiscano per tutelare la sicurezza dei lavoratori, italiani e immigrati. Per ricordare il fratello Satnam Singh e chiedere condizioni di lavoro sicure, l’Unione Sikh Italia invita i responsabili dei gurdwara (templi) a rispettare un minuto di silenzio in ogni cerimonia che si celebra in questa settimana».
La sicurezza e la dignità dei lavoratori sono alla base di una delle attività del programma migranti e rifugiati della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Mediterranean Hope, che in un altro territorio di sfruttamento, la Piana di Gioia Tauro, ha aperto un ostello sociale, Dambe so.
«Le stragi in mare di questi giorni, a Lampedusa, dichiara Francesco Piobbichi, operatore di Mediterranean Hope a Rosarno (e autore dei disegni in questo articolo) – insieme alla drammatica vicenda di Satnam Singh, ci parlano di un legame tra la chiusura della frontiera e lo sfruttamento della forza lavoro migrante».
E c’è poi una domanda che riguarda tutte e tutti i cittadini, i consumatori. «Un grande tema, spesso dimenticato, in Italia è il ruolo della filiera agricola – continua Piobbichi – a partire dalla grande distribuzione organizzata che comprime i diritti e le garanzie di chi lavora senza mai essere chiamata alla responsabilità sociale. È necessario cioè capire chi sono stati i responsabili materiali della morte di questo lavoratore e quali reati sono stati compiuti, chiedere giustizia per lui e la sua famiglia, ma vorremmo anche sapere su quali banconi finiscono i prodotti che coltivava».
Nella Giornata mondiale del Rifugiato, che si celebra proprio oggi, 20 giugno, la battaglia per la giustizia sociale sembra sempre più connessa a tante altre lotte che restano da fare.
«Come chiese protestanti cerchiamo, nel nostro piccolo, di stare nei luoghi dove le persone sono ai margini, rese invisibili da un sistema che esclude, sfrutta, uccide. Ci stringiamo alle famiglie di queste vittime, ai loro amici, il nostro pensiero è con tutte le persone che muoiono a causa di politiche migratorie disumane che negano diritti, libertà, dignità», aggiunge Marta Bernardini, coordinatrice di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della Fcei.
Da www.nev.it