Il racconto della Pentecoste: parole e impegno
Le prime comunità cristiane e la ricerca di quale debba essere il nostro atteggiamento. La parola di Dio ci chiede di discernere il bene nel momento del dolore
Un po’ di tempo fa, appuntavo gli argomenti per i prossimi incontri di catechismo. Non avendo ricevuto richieste specifiche dalle ragazze del gruppo di adolescenti, chiesi a mio figlio (più critico sul mio insegnamento): “Che cosa ti interesserebbe sapere della nostra fede?”. Mi rispose: “Vorrei capire com’era la chiesa dei primi tempi; per esempio, com’erano le comunità dopo la Resurrezione di Gesù?”.
Questa domanda così semplice, non lo era affatto. In questi anni ho visto nelle nostre chiese, figli e figlie accostarsi a noi per decodificare nelle nostre azioni la fedeltà all’insegnamento di Dio. Se rileggiamo la parte del racconto di Pentecoste dopo la discesa dello Spirito Santo (Atti 2, 1-13) e dopo il sermone di Pietro (Atti 2, 14-36), il contesto descritto è semplice: «Ed erano perseveranti nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nel rompere il pane e nelle preghiere» (Atti 2, 42). Ma questa è solo una parte della descrizione: il contesto è più ampio, deludente e paradossalmente, grazie a questo, rivelatore della potenza di Dio: un Dio capace di rigenerare e convertire le vie del male in bene.
I giovani ricercano nelle nostre comunità quella speranza che è indissolubilmente legata all’annuncio dell’Evangelo e che ovunque è il motore di ogni giovane generazione. Hanno background e vite distanti, vivono una socializzazione virtuale che li espone e sono affamati del sentirsi parte di qualcosa. Così, ho letto nella domanda di mio figlio una richiesta che riguarda tutti: che ne abbiamo fatto dell’indicazione dello Spirito di Pentecoste nella chiesa? La domanda per me era: “Se nei racconti profetici, nei vangeli, nei libri storici che ci hai fatto scoprire, ci sono sempre comunità attraversate da parole di conflitto, silenzi, odio, errori e perdono, come erano le prime comunità dopo la Resurrezione? Migliori? E perché noi siamo così oggi?”.
Mi viene da rispondere (identificandomi ancora in quella generazione di Atti): «Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e voi riceverete il dono dello Spirito Santo. Perché per voi è la promessa, per i vostri figli, e per tutti quelli che sono lontani, per quanti il Signore, nostro Dio, ne chiamerà» (2, 38-39).
Ma non basta e per questo cerco di argomentare una domanda non semplice.
Caro Ruben, fra quei podcast che io ascolto e tu non sopporti, ce n’è uno della reporter Francesca Mannocchi che si intitola Per esempio la guerra ed è nato da una domanda di Pietro, il figlio di otto anni, che un giorno guardando il telegiornale le ha chiesto: “Mamma ma quando arriverà la guerra qui?”. Alcune domande semplici richiedono spiegazioni articolate.
Ricordi quando abbiamo studiato durante il catechismo, alcuni conflitti descritti nel Primo Testamento? La Bibbia insegna che non ci sono giustificazioni valide per Dio di fronte allo spargimento di sangue e abbiamo lavorato molto sulla responsabilità che l’umanità ha nel fare il male e allontanarsi dalla giustizia di Dio. “Le colpe dei padri ricadranno sui figli” è l’insegnamento del non far radicare l’odio nei figli. Ti ricordi quando con lo scoppio della guerra in Ucraina dovevo spiegare a tua sorella di dieci anni perché delle chiese si dichiaravano a favore della guerra e usavano la parola di Dio per giustificare la strage di innocenti? A volte mancano delle parole semplici perché tendiamo a moltiplicare le situazioni di sofferenza per il potere di pochi e ci allontaniamo dall’insegnamento dell’evangelo che abbiamo ricevuto. In questi contesti, quando Mannocchi ha chiesto in una scuola elementare: “Se voi aveste una cassetta degli attrezzi per aggiustare le cose e fare la pace, che attrezzo usereste?”, un ragazzino ha risposto: “Le parole”.
La parola di Dio è, per bocca di un bambino, l’attrezzo che noi dovremmo saper usare per aggiustare le cose (Salmo 8, 2). Quando rileggerai il racconto del libro degli Atti scoprirai che, nella Babele delle nostre diversità e nelle difficoltà di creare luoghi senza conflitti, Iddio sceglie di non lasciarci e di indicarci il modo di vivere secondo la Sua giustizia e in speranza. Le parole della Bibbia possono liberarci da questa storia di errori e indicarci un modo in cui impegnarci per risanare quanto abbiamo trasformato in qualcosa di oscuro, una creazione spaventata e per questo pronta ad aggredire.
Perché la domanda di mio figlio mi ha rimandato a tutto questo? Perché sapevo di non poter parlare di testimonianza di prime comunità di credenti guidate dallo Spirito senza provare a capire come affrontare le divisioni, i conflitti e le difficoltà di quelle chiese che non erano diverse da noi oggi. La parola di Dio chiede a noi di avere la capacità di discernere il bene nel momento del dolore. Qual è la strada che ci sta indicando? La chiesa del libro degli Atti si ritira in preghiera, si ferma e chiede a Dio di aiutarla a trovare le parole della riconciliazione. Solo attraverso il pentimento si giunge al perdono nel quale lo Spirito ricompone l’umanità. Il pastore Tullio Vinay, nello scritto che ripercorre la creazione del centro Agape di Prali (L’amore è più grande), disse: «La chiesa non trova nel mondo né fallimento né inganno che non abbia prima sperimentato in sé stessa».
La chiesa nel giorno di Pentecoste deve essere intrisa di profonda umiltà. Senza retorica, noi professiamo pubblicamente di credere in Dio e nella Salvezza grazie a Suo figlio Gesù Cristo, offrendo la nostra pubblica testimonianza con il battesimo, invocando per essa la guida dello Spirito Santo.