La guerra del Ramadan

La società civile e le chiese hanno una grande responsabilità: rompere questa logica della guerra culturale e religiosa che arriva anche a casa nostra

 

A pochi giorni dalla Pasqua, si conclude il Ramadan: il mese del calendario islamico in cui i musulmani di tutto il mondo digiunano dall’alba al tramonto per ricordare il periodo nel quale Dio rivelò il Corano, il libro sacro, al profeta Muhammad.

Per milioni di persone, il Ramadan è quindi un periodo di concentrazione spirituale sui temi centrali della fede, ma anche l’occasione per riunire le famiglie disperse e festeggiare insieme la rottura del digiuno quotidiano, quando finalmente in cielo spuntano le prime stelle: è il momento dell’iftar, nel quale dopo aver pregato, si condivide il pasto con amici e parenti.

 

Alla fine del mese di Ramadan si celebra l’ultimo iftar ed è una festa gioiosa, che si prolunga per ore e ha le stesse dinamiche degli incontri di famiglia in occasione delle feste di tradizione cristiana, come la Pasqua che abbiamo appena celebrato per ricordare la resurrezione di Gesù.

 

Del Ramadan che si conclude il prossimo 10 aprile, si è parlato molto in questi giorni, e per ragioni che poco hanno a che fare con la spiritualità islamica che lo caratterizza. Una scuola del Comune lombardo di Pioltello, infatti, ha deciso di organizzare il proprio calendario sospendendo le lezioni proprio il 10 aprile. È una norma consentita dalla legge che riconosce agli istituti scolastici la libertà di fissare, entro un tetto precisamente stabilito e non superabile, alcuni giorni di festività.

 

Tradizionalmente, uno di questi è la festa cattolica del santo patrono locale; in altri casi si tiene conto delle opportunità o dei rischi metereologici; in altri, come in alcune valli del Piemonte, per ricordare il provvedimento di re Carlo Alberto che, il 17 febbraio del 1848, concesse i diritti civili ai valdesi. La motivazione addotta dalla scuola di Pioltello è assai pragmatica: data la numerosità degli allievi musulmani che non sarebbero andati a scuola per celebrare in famiglia la fine del Ramadan, si è preferito chiudere piuttosto che fare lezione di fronte a classi dimezzate o semivuote. Una scelta di ragionevole adattamento a un cambiamento sociale sempre più frequente anche in Italia e ormai consolidato in Europa.

 

Ma non è andata così. La scelta della scuola di Pioltello ha suscitato vigorose reazioni politiche che si sono spinte fino alla richiesta di cancellare il provvedimento e alla minaccia, neanche tanto velata, di una ispezione ministeriale. Non hanno placato le polemiche neanche le ragionevoli e misurate parole del Presidente Mattarella che ha espresso apprezzamento per la lettera che la dirigente scolastica gli aveva inviato per motivare la decisione di sospendere le lezioni nell’ultimo giorno di Ramadan. La polemica ha continuato a montare, con motivazioni che meritano di essere ricordate: la chiusura per il Ramadan violerebbe il principio di laicità della scuola, ha detto qualcuno. Argomento debole, se pensiamo alle festività cristiane del calendario scolastico, alle messe e ad altre cerimonie religiose, talora programmate negli orari di lezione, alla stessa presenza nell’orario scolastico di un insegnamento religioso confessionale.

 

Debole anche un altro argomento, e cioè che la sospensione di un giorno di lezione in occasione di una festa islamica minerebbe i processi di integrazione interculturale in atto nella scuola italiana. L’argomento è debole perché in questi anni si è andati esattamente nella direzione opposta. Tagli del personale e cancellazione di interi programmi interculturali hanno interrotto la storia di una buona pratica tutta italiana. E poi, come si fa a conciliare una presunta strategia di integrazione interculturale con gli appelli all’italianità e al dovere, degli “altri”, di adattarsi alla tradizione italiana?

 

C’è infine l’argomento della reciprocità: perché dobbiamo concedere dei riconoscimenti quando “loro” – torna questa brutta contrapposizione tra “noi” e “loro” – non ci permettono di costruire chiese nei loro paesi? Argomento debole anche questo, perché in paesi come la Tunisia, il Marocco, l’Egitto, il Senegal, tutti a stragrande maggioranza musulmana, ci sono chiese e missioni cristiane. Ma anche dove non accade, a esempio in Arabia Saudita, è esattamente questa la differenza tra una democrazia e una teocrazia. E dovremmo esserne fieri e non cadere nel gioco speculare della limitazione delle libertà religiose. E invece, a esempio a Monfalcone, la sindaca si fa vanto di avere chiuso due moschee. Non ha fatto una bella figura, dal momento che il Consiglio di Stato le ha intimato di riaprirle, almeno fino al reperimento di nuovi locali. «Una pentola da cui esce una puzza terribile – ha dichiarato la sindaca, in riferimento al caso –. Nessuna minaccia potrà farci arretrare. Anche questa è una guerra».

 

Parole pesanti, decisamente povere sotto il profilo istituzionale e della convivenza che una sindaca dovrebbe tutelare e promuovere, che però ci dicono quale sia il clima in cui oggi in Italia si parla dell’Islam.

Per questo la società civile e le chiese hanno una grande responsabilità: rompere questa logica della guerra culturale e religiosa che arriva anche a casa nostra, per promuovere invece la strategia della convivenza e del dialogo. Che si nutre anche di piccoli gesti, come gli auguri che tante comunità islamiche hanno fatto alle chiese cristiane in occasione della Pasqua. E come le visite di tanti cristiani che hanno partecipato agli iftar in varie moschee. Non è la soluzione di ogni problema, ma è da qui che si deve partire, dalla conoscenza dell’altro. Come racconta un antico apologo arabo, un uomo, camminando nel deserto, vide di fronte a sé un mostro violento e pericoloso. Man mano che gli si avvicinava questo mostro assumeva fattezze più rassicuranti e umane. Sempre più vicino, non faceva più paura e quando il viandante poté guardarlo in viso scoprì che era suo fratello.

 

La rubrica «Essere chiesa insieme» a cura di Paolo Naso è andata in onda domenica 6 aprile durante il «Culto evangelico», trasmissione (e rubrica del Giornale Radio) di Rai Radio1 a cura della Federazione delle chiese evangeliche in Italia. Per il podcast e il riascolto online ci si può collegare al sito www.raiplayradio.it.