Ruanda, 30 anni dopo
Nel 1994 uno dei più terribili genocidi del XX secolo
Nelle scorse settimane la Chiesa presbiteriana del Ruanda ha ospitato la 51esima Conferenza internazionale sul dialogo tra ebrei, cristiani e musulmani. L’iniziativa, organizzata dall’Uem (Missione evangelica unita) sul tema “Che cos’è la casa?”, ha riunito partecipanti provenienti dalla Repubblica democratica del Congo, dalla Tanzania, dal Kenya e dal Ruanda. In videoconferenza erano presenti anche rappresentanti di chiese europee e asiatiche.
La scelta del paese ospitante non è neutrale. L’anno 2024 segna, infatti, i trent’anni del genocidio contro l’etnia Tutsi del 1994, una delle violenze più estreme del XX secolo in Africa e nel mondo, che prese il via proprio in aprile. Un’occasione per il dottor Pascal Bataringaya, presidente della Chiesa presbiteriana del Ruanda, per ripercorrere gli eventi e analizzare le conseguenze della follia umana. Vi proponiamo una sintesi del suo intervento.
«Il Ruanda ha vissuto una tragica storia di violenza politica culminata nel 1994 con il genocidio contro i Tutsi. Si stima che in cento giorni siano state uccise più di un milione di persone. Oltre alla perdita di vite umane, il genocidio ha causato danni considerevoli alle strutture socioeconomiche, alla proprietà, alla coesione familiare e comunitaria.
Le relazioni sociali sono state distrutte. Non è stato preso in considerazione il senso di umanità e di comunità.
Oggi, quando proviamo a guardare cosa sta succedendo nel mondo, trent’anni dopo questa tragica situazione, vediamo che molte persone in tutto il mondo sono attualmente rifugiate, alcune in Paesi stranieri, altre nei propri.
Anche in Ruanda migliaia di persone provenienti da nazioni vicine si trovano nei campi profughi. Li abbiamo accolti e le porte sono ancora aperte per chi una casa non ce l’ha. Come possiamo parlare di casa quando le persone sono costrette a lasciare il proprio Paese?
Come tutti sappiamo, la situazione dei rifugiati è legata a guerre, conflitti, persecuzioni per motivi politici, religiosi o culturali, a contesti di ingiustizia, discriminazione, dominio, esclusione e violenza. È anche legata ai disastri naturali che costringono uomini e donne a lasciare le proprie case.
È nostro compito esplorare insieme, da un punto di vista interreligioso e interculturale, la questione di cosa significhi “casa” e vedere insieme quali risposte devono fornire gli ebrei, le tradizioni e le culture cristiane e musulmane di fronte alla perdita della propria casa, la perdita della propria terra; perché è questa la grande sfida del nostro oggi.
Parlare di “casa” significa realizzare il sogno di Dio per l’umanità, perché sappiamo che siamo membri di un’unica famiglia, la famiglia degli esseri umani, legati da una delicata rete di interdipendenza.
La tradizione africana è d’accordo con la Bibbia e penso con il Corano nell’affermare che la Terra appartiene al Dio supremo. Allora escludere gli altri dalla propria terra, dalla propria casa è considerato segno di infedeltà a Dio.
Pertanto, tutte le chiese e le organizzazioni religiose devono rafforzare la capacità dei loro membri e della società nel suo complesso di prevenire conflitti violenti e mantenere interazioni pacifiche tra i loro credenti al fine di promuovere un senso di appartenenza e una vita abbondante per tutti».