Lotta alla mafia, le strutture che servono ancora

21 marzo, «Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie» 

 

Il 21 marzo il nostro Paese celebrerà la XXIX Giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, promossa da Libera e Avviso Pubblico, una ricorrenza entrata ufficialmente nel calendario repubblicano grazie alla legge numero 20, approvata dal Parlamento nel 2017. Il 21 marzo, primo giorno di primavera, venne scelto dai famigliari delle vittime di mafia che si raccoglievano in Libera come giorno per ricordarle tutte, volendo evitare che si cristallizzasse una memoria discriminatoria buona a ricordare alcuni eroi, dimenticando tutti gli altri e insieme per ricordarle nel loro impegno, da vive, perché il loro diventasse l’impegno di tutti.

 

Credo che il valore di questa giornata sia tanto più attuale oggi: alcuni segnali inquietanti ci devono mettere in guardia. Da qualche anno a questa parte infatti ha preso forza un “movimento” trasversale che sostiene una tesi insidiosa e pericolosa, che suona pressappoco così: la mafia in Italia è stata una emergenza drammatica soprattutto a causa della conduzione di Cosa Nostra da parte dei corleonesi di Totò Riina. La mafia dei corleonesi, quella della contrapposizione frontale allo Stato, è stata a sua volta una anomalia nella storia delle mafie nel nostro Paese, che mai si erano spinte fino a interpretare un modello di violenza criminale terroristico-eversivo.

Questa emergenza-anomala ha giustificato un impegno straordinario da parte dello Stato, un impegno che si è tradotto nell’approvazione di una serie di norme e nella creazione di istituti capaci di anticipare di molto la reazione dello Stato, sul piano della prevenzione della commissione dei reati e capaci di una forza repressiva senza precedenti. Queste norme e questi istituti hanno rappresentato uno strappo sul piano delle garanzie costituzionali, hanno generato uno squilibrio tra il potere dello Stato e le libertà degli individui, sebbene sospettati di essere pericolosi criminali. Ebbene (sostengono costoro): la guerra è finita, il nemico è stato battuto, possiamo finalmente ricomporre quello strappo, cancellando, neutralizzando, modificando quelle norme e quegli istituti, per tornare nel solco di uno Stato di diritto, garante delle libertà individuali. Punto.

 

Le norme e gli istituti messi sul banco degli imputati e accusati di rappresentare questo insopportabile strappo sono praticamente tutte le misure di prevenzione, tanto amministrative (le interdittive antimafia, lo scioglimento dei Comuni per mafia), quanto giudiziarie (sequestri e confische di prevenzione) e carcerarie (il 41 bis, OP, che serve a impedire che i mafiosi condannati e detenuti continuino a comandare in carcere e dal carcere).

Ma più generalmente l’intero sistema investigativo-giudiziario immaginato da Giovanni Falcone e fondato sui criteri di centralizzazione e specializzazione è sotto accusa, basta al proposito osservare come venga adoperata in queste settimane l’inchiesta incardinata a Perugia che vede indagato un ufficiale della Guardia di Finanza e un sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia ed antiterrorismo (insieme ad alcuni giornalisti) cui si contestano accessi abusivi alle banche dati e rivelazione di segreto istruttorio: da giorni c’è chi si chiede sui giornali se la Procura nazionale antimafia e a cascata le Direzioni distrettuali antimafia, la Direzione investigativa antimafia, l’Ufficio informazioni finanziarie della Banca d’Italia (che raccoglie le SOS, le segnalazioni operazioni sospette), servano ancora o non siano diventati dei pericolosi baracconi, utili soltanto a far fare carriera politica a magistrati infedeli e ambiziosi.

 

Lo stesso reato di concorso esterno in associazione mafiosa è stato esplicitamente messo in discussione dal ministro Nordio, costringendo per la prima volta (era luglio e mancavano pochi giorni alla commemorazione della strage di via D’Amelio) la presidente Meloni a prendere precipitosamente le distanze dal suo Ministro e non mi stupirei se prendesse piede l’attacco diretto al 416bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Un attacco che potrebbe prendere la forma non tanto di una abrogazione, quanto di uno snaturamento attraverso qualche chirurgica modifica. Nessuno si stupisca: il reato di associazione mafiosa non è stato mai digerito e va ricordato che il Parlamento italiano, obtorto collo, approvò la norma soltanto dopo che la mafia (con il solito corredo di “concorrenti esterni”!) assassinò Cesare Terranova nel 1979 (che era stato tra i primi a elaborare lo schema giuridico sotteso al 416bis), Pio La Torre il 30 aprile del 1982 (parlamentare collega di Terranova e come questi siciliano) e infine il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 3 settembre del 1982 (mandato dal Governo a fare il super prefetto a Palermo). Il 416bis è stato davvero scritto col sangue dei giusti.

 

Naturalmente chi scrive è radicalmente contrario alla tesi di coloro che vorrebbero ergersi a paladini della normalità democratica e invece finiscono per essere agenti della normalizzazione reazionaria. Una contrarietà legata tanto alla interpretazione dei fatti (la mafia è stata vinta), quanto alla interpretazione delle norme (uno “strappo” allo Stato di diritto), ma lascio a eventuali successive occasioni le argomentazioni del caso.

 

*Davide Mattiello è presidente del Circolo Articolo 21 Piemonte

 

Foto: elaborazione grafica a cura di Giuseppe Nigro