“Giustizia, come servizio all’uomo”
I testi del magistrato Rodolfo Venditti fra giustizia, legge, coscienza e libertà
Quali possono essere le riflessioni di un magistrato sul lavoro del giudice? Su questo s’interroga un libro che rimane di stretta attualità per le note peripezie della nostra giustizia, sempre in debito di riforme, ma più spesso si tratta di pecette spacciate per “rivoluzioni epocali”, scritto da Rodolfo Venditti[1], e molto modestamente stampato e donato per gli amici. La pubblicazione che contiene meditate e coinvolgenti riflessioni di questo importante e al tempo stesso ritroso personaggio pubblico, che ha svolto con grande onestà e competenza diverse funzioni, affrontato varie decisioni processuali, ed è mancato agli inizi dell’anno, in età veneranda. Da questo saggio citerò liberamente alcuni passaggi.
Nato nel 1925 ad Ivrea, è stato magistrato dal 1950 al 1993, studioso di Diritto penale e docente universitario di “Diritto e procedura penale militare”- in particolare riguardo all’obiezione di coscienza – e anche cultore appassionato di musica classica, a cui ha dedicato parecchi saggi, lezioni alle Università della Terza età e presentazioni di concerti. Formatosi nel movimento giovanile dell’Azione Cattolica, è sempre stato, insieme alla moglie Luisa e ai tre figli, impegnato come cristiano aperto ed ecumenico nella società e nella sua chiesa.
Giovanissimo, venne assegnato come prima funzione al Tribunale di Saluzzo: “La prima impressione che ebbi della magistratura vista dal di dentro – ricorda – fu di grande serietà e impegno (…) pur essendo io un inesperto principiante, fui accolto come un collega a pieno titolo (…) Questa impressione iniziale ricevette negli anni molte conferme, quando passai alla Pretura di Torino, poi al Tribunale e in seguito alla Corte di appello di Torino.”
Ma qual è la caratteristica del lavoro del giudice? Venditti torna e ritorna sul tema della coscienza “la quale diventa principale e decisivo ‘strumento’ di lavoro. Il giudice è soggetto solo alla legge, che interpreta e applica secondo la propria coscienza”. Si tratta quindi di una professione “libera e indipendente”, di cui fondamentale è l’indipendenza dei magistrati dal potere politico.
“Ma applicare la legge significa anche interpretarla – precisa l’autore – E il campo dell’interpretazione apre uno spazio immenso alla creatività del giudice. ”Esso è chiamato ad essere “interprete vivo”: “La legge non è un un dato univoco, è una costruzione di parole, e le parole hanno un loro intrinseco limite: possono assumere significati diversi a seconda del contesto in cui sono inserite; possono presentare sfumature diverse e quindi esprimere concetti diversi. Questo è uno dei motivi per cui su molte questioni vi sono, talora, sentenze discordanti (…). Certo, ciò comporta un notevole grado di relatività della giustizia; e questa può essere difficile da capire. Ma la relatività è propria delle cose umane”, osserva col senso della fallibilità proprio del credente. “Ma ,nel caso del lavoro del giudice – aggiunge – la relatività acquista una valenza particolarmente importante: i margini di discrezionalità che sono insiti nel fenomeno dell’interpretazione offrono al giudice un ventaglio di soluzioni, tra le quali egli può scegliere, secondo coscienza.”
La domanda che si pone, allora, è : come si comporta il giudice di fronte a una legge che la sua coscienza ritiene ingiusta? Ricordo quanto mi raccontò durante un’intervista, Alessandro Galante Garrone, i dilemmi e le soluzioni via via escogitate durante la dittatura dai magistrati torinesi antifascisti per limitare, almeno, i danni delle leggi razziali del 1938. E qui Venditti esemplifica, citando il proprio impegno sui temi dell’obiezione di coscienza al servizio militare, a cui dedicò anche un saggio (edito da Giuffrè, Milano,1999). Dopo aver esposto varie considerazioni, egli conclude comunque che il giudice deve applicare la legge, sia pure contro coscienza, e che può chiedere di essere destinato ad uffici giudiziari in cui essa non vi sia da applicare. Gli rimane sempre comunque la possibilità di criticare quella legge che è costretto ad applicare, ma che non condivide – magari nella motivazione del provvedimento – : può suscitare così “un dibattito in dottrina, e può innescare nel legislatore un positivo, fruttuoso ripensamento.”
Molte sono le critiche anche durissime rivolte al legislatore, in cui non possiamo qui addentrarci, tra cui le più importanti sono quelle “di risolvere i problemi sulla carta, con un tratto di penna, senza porsi il problema concreto dell’attuazione della norma” e di decidere “sotto l’impulso dell’emotività e della demagogia, facendo e disfacendo, dicendo e contraddicendo”: “Un legislatore schizofrenico e inaffidabile, dalle sterzate improvvise e non meditate, impone al giudice repentini mutamenti di indirizzo, una fatica immensa di continua revisione e il logoramento psicologico” di fronte “al dover applicare disposizioni incoerenti e contraddittorie.”
E qui addita come esempio positivo la “fantasia” degli ordinamenti anglosassoni, una sorta di “contrappasso dantesco”: “E quanta saggezza c’è in certe decisioni di giudici inglesi o nordamericani: condannare un razzista ‘naziskin’ responsabile di atti di violenza, a incontrare uomini di colore o ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazista, a entrare in dialogo con loro, a rendersi conto dell’assurdità del razzismo”.
E riguardo all’imputato scrive: ”Una giusta sentenza di condanna rende un servizio alla singola persona condannata, perché offre a quest’ultimo la possibilità di pagare un debito verso la società e di innescare un processo interiore di revisione della vita. Ogni uomo ha la possibilità di cambiare, di ricostruire una vita su nuove basi (ed è questo uno dei motivi essenziali che si oppongono all’ammissibilità della pena di morte, perché essa nega al condannato quella possibilità)”.
Ma anche Venditti si pone con sguardo autocritico sulla responsabilità del giudice: “Il coraggio delle scelte deve essere accompagnato da prudenza ed equilibrio. Il giudice deve stare attento a non scambiare per ‘coscienza’ la sua personale emotività, deve vagliare con scrupolo tutte le ragioni delle parti in causa, evitando di sacrificare alla rapidità l’esigenza di sentire compiutamente le ragioni di tutte le parti interessate”.
Molti altri capitoli di questo libro sono interessanti e attuali, come quello sulle critiche dell’opinione pubblica alla ‘politicizzazione’ dei giudici, o quelli dedicati al rapporto con gli avvocati, con le parti e i testi, alla ‘piaga delle raccomandazioni’, agli incarichi extragiudiziari, ai rapporti con l’informazione, alle responsabilità nei confronti dei minori , ai processi di terrorismo e di mafia, o a quelli di corruzione e concussione della classe politica.
Tutti temi che l’autore affronta con la sua esemplare serenità e obiettività, fino a concludere questo suo libro con l’interrogativo posto alla sua coscienza di credente, il “Nolite judicare” di Gesù (Matteo 7,1). Se nella Bibbia il “retto giudizio” appartiene soltanto a Dio, questo “a mio modesto avviso non significa demonizzare il giudice, significa: non pretendete di catalogare, etichettare le persone; rispettate la coscienza di ogni uomo (…). La realtà ultima dell’uomo sfugge al giudizio umano: nessuno, neanche il giudice, può pretendere di sostituirsi a Dio nello scrutare l’intimo del cuore dell’uomo, la coscienza e le sue possibilità di recupero. (…) Il giudicare di Dio è dunque una dimensione diversa da quella del giudicare dell’uomo-giudice.(…) Ciò non esclude che il ‘Nolite judicare’ sia un ammonimento valido anche per i giudici: li richiama alla prudenza e al senso della misura nell’esercitare la loro funzione”.
“Scorra il diritto come l’acqua – esclamava poeticamente Amos (5,24), il “profeta della giustizia”, dopo le sue durissime reprimende – e la giustizia come un rivo perenne!”.
[1] Rodolfo Venditti, “Giustizia, come servizio all’uomo – Riflessioni di un magistrato sul lavoro del giudice”, Edizione 2017; dello stesso autore , La legalità, 2020.
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