«Canterò sulla cetra il mio enigma»

Il tema della vecchiaia è affrontato da Gabriella Caramore nel suo ultimo libro

 

Ecco un libro che riguarda tutti coloro che invecchiano, ossia la grande maggioranza di coloro che nascono e vivono oggi nel nostro mondo. È un fatto noto e sotto gli occhi di tutti che, almeno nelle società più sviluppate, il numero delle persone anziane cresce costantemente. Certo, sono sempre numerose anche le persone che muoiono prima di invecchiare, ma sono molti di più coloro che varcano, in buone condizioni di salute e di vita, la soglia dei 50 e 70 anni, diventando non solo anziani, ma vecchi. L’età media della vita umana, almeno in Occidente, continua a crescere, e quindi cresce il numero dei vecchi, uomini e donne.

 

Ma che cosa significa “invecchiare”? Come porsi davanti a questo fenomeno universale e ineluttabile? Come affrontare – con quali pensieri, sentimenti e atteggiamenti – questa fase conclusiva della vita umana? A questi e altri simili interrogativi cerca di rispondere Gabriella Caramore, nota al grande pubblico radiofonico per aver condotto durante vent’anni, con grande maestria, cioè competenza e intelligenza, su Radio Tre la rubrica Uomini e Profeti –, ha dedicato il suo ultimo libro, uscito nel settembre scorso*. Il discorso si articola in quattro tempi, cui corrispondono quattro capitoli. Il primo è intitolato «Sulla scena di un dramma». Perché la vecchiaia è vista come “dramma”? «Perché vi è qualcosa di tremendo di avere davanti agli occhi, in un ingrandimento che finisce per accecare la vista lo spettacolo di una notte buia senza stelle. E nello stesso tempo vi è «grandezza nel constatare che il soffio di ogni vita contiene fino all’ultimo passione e bellezza, e dolore e azione e violenza e dolcezza in un amalgama ogni volta rinnovato» (p. 128). In questo capitolo introduttivo si sfatano anche alcuni “luoghi comuni” (pp. 14-20), come quello secondo il quale i vecchi erano più rispettati e ascoltati in età passate, a esempio nella società contadina di un tempo. In parte è vero, ma solo in parte: anche allora i vecchi erano molto soli e più sopportati che amati.

 

Seguono i due capitoli centrali, intitolati rispettivamente «Tempo penultimo» e «Tempo ultimo», nei quali si sostiene la tesi del libro, e cioè che questi due tempi conclusivi della vita umana possono essere vissuti come «esperienza vitale e non passiva, aperta e non asserragliata nella malinconia, capace di apprezzare ogni momento come un sapore nuovo» (p. 42). In sostanza questo libro sostiene il contrario di ciò che dice il noto detto latino: «La vecchiaia stessa è la malattia» (senectus ipsa morbus). No – ci dice Gabriella Caramore –, la vecchiaia è un tempo prezioso, che offre opportunità e occasioni insperate. Certo, anche lei sa bene che questa vita terrena è fugace e caduca, come dice anche la Bibbia e sapevano già gli antichi poeti greci, come Mimnermo, di cui riferisce il lamento: «Così penosa fece il dio la vecchiaia!» (p. 51). Ma malgrado tutto l’autrice resta fedele alla sua tesi e la illustra ancora meglio nel quarto capitolo, intitolato «L’ombra che illumina» la vita. Tutto il libro è poi perfettamente riassunto nel suo titolo: L’età grande. La spiegazione si trova alle pp. 23-24 e, soprattutto, 128.

 

Le diverse ragioni addotte per considerare la vecchiaia “l’età grande” possono forse essere raccolte in questa: è “l’età grande” la vecchiaia perché è l’occasione buona, e anche l’ultima, per affrontare la grande domanda, forse mai presa in considerazione prima: «Che cos’è veramente la vita, visto che, alla fine, la morte la ghermisce? Che cos’è questa nostra vita mortale, che ci troviamo a vivere senza averlo chiesto? È l’occasione unica? Il dono più prezioso e del tutto gratuito? Una vocazione divina? È la vanità delle vanità? O la suprema illusione?». La grandezza della domanda, riverberandosi nel tempo in cui la si affronta, lo rende grande. Se questo tempo è la vecchiaia, essa è davvero «l’età grande».

 

Il libro, scritto in prima persona, con diversi accenni al proprio vissuto personale e familiare, ha molti pregi, oltre a una scrittura elegante e molto curata nella scelta delle parole. Segnalo due pregi. Il primo è che l’autrice, per svolgere il suo tema (la vecchiaia), non si affida solo ai suoi pensieri, ma ricorre ampiamente ad altre visioni ed esperienze, tratte dalla musica (Brahms e Strauss), dalla pittura (Rembrandt), dalla letteratura (alcuni romanzi), da singoli artisti (Bill Viola), da uno spettacolo teatrale (Emma Dante con il suo Pupo di zucchero), da diversi poeti antichi e moderni. La varietà e la qualità di questi riferimenti arricchisce molto il libro. Il secondo pregio sono le pagine molto belle dedicate alle due “grandi eredità” che i vecchi possono lasciare a chi resta: la memoria e il perdono (pp. 122-125).

 

Se mi è lecito, ne aggiungerei altre due che non ho trovato nel libro, ma che possono contribuire a valorizzare il “tempo ultimo” della nostra vita. La prima “eredità” è la gratitudine. La vita, si sa, può anche essere un fardello non lieve; non tutti possono dire a cuor leggero: «la vita è bella!», ma tutti – credo – possono dire che è più bella del Nulla. La seconda “eredità” è che la coscienza della fine che si fa acuta nel “tempo ultimo”, oltre a essere “l’ombra che illumina” la vita passata, può anche essere l’occasione per dedicare qualche momento alla «meditazione della vita futura» (ne parla Calvino nella sua Istituzione), spingendo lo sguardo oltre «il muro del tempo» (p. 18). Se poi, come può facilmente accadere, la morte che tutti ci coglie rendesse la nostra vita terrena ancora più enigmatica di quello che è in sé, ci può soccorrere il Salmo 49 che dice: «La mia bocca proferirà cose savie e la meditazione del mio cuore sarà piena di senno. Io presterò l’orecchio alle sentenze, e canterò sulla cetra il mio enigma» (vv. 4-5). A chi lo canterò? Non a me stesso, ma a Colui che è il Signore della vita e della morte.

 

* G. Caramore, L’età grande. Riflessioni sulla vecchiaia. Milano, Garzanti, 2023, pp. 135, euro 14,00.