Colui che colma le promesse e dà vita alla speranza
Natale di guerra: a Giovanni Gesù non parla di sé, ma indica fatti precisi
Non riesco a trovare, per pensare quest’anno al Natale, niente di meglio della domanda di Giovanni battista a Gesù: «Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?» (Matteo 11, 3).
La riferisce l’Evangelo di Matteo, non davanti al bambino Gesù, ma registrando l’inquietudine di Giovanni, in prigione. Questa domanda ci toglie la pace e la magia che intorno al Natale si continua a costruire. E io amo il Natale, amo i suoi inni, e la sua luce che le tenebre non riescono né ad accogliere né a soffocare. Non riesco a trovare pace quest’anno, forse perché la carica di male che l’attentato di Hamas ha scatenato il 7 ottobre scorso. sui civili israeliani mi ha riempito di orrore, le donne stuprate, i bambini decapitati, i rapiti ancora prigionieri. Mi ha sempre riempito di orrore ogni atto di terrore qualunque ne fossero le supposte ragioni. Perché il terrorismo è vigliacco e spaventoso. Mi sconcerta e inorridisce anche la reazione terribile del governo israeliano su Gaza, certo, moltissimo. Mi colpisce il numero dei civili morti per il tentativo di prendere tra tutti gli uccisi, i terroristi di Hamas. Le tenebre sono davvero fitte, più fitte che mai.
Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro? Sei tu? Sei proprio tu colui che colma le promesse, che dà vita alla speranza? Sei proprio tu, Signore, che sconfiggi il male? È con te che la nostra travagliata storia umana trova il suo riscatto? Questo è ciò che chiede il precursore, l’araldo, colui che è venuto al mondo per annunciare il Cristo. È una domanda seria. Non è la domanda scettica di uno che vuole essere convinto, ma la domanda di uno che ha avuto fiducia in Gesù, che ha scommesso su di lui e quindi si chiede sconcertato se non ci sia qualcosa che non va. Un messia così umile, così poco speciale, così discutibile. Un uomo, soltanto un uomo. Giovanni crede, ma la sua fede, che ha indicato in Gesù l’agnello di Dio, ha bisogno di risposte. Quello che sente dire di lui, di quello che dice e di quello che fa, è abbastanza per potersi fidare di consegnare proprio a lui la sua domanda. Sei tu che porti a compimento la promessa? Giovanni è in carcere e sta per morire: sei tu il messia che aspettavamo? Quello che viene a regnare a riempire di pace la nostra vita e il mondo? Colui che vince il male e la morte? O ne dobbiamo aspettare un altro?
Gesù risponde a Giovanni, e gli risponde citando la Bibbia, le profezie di Isaia: «Dite a quelli che hanno il cuore smarrito: “Siate forti, non temete! Ecco il vostro Dio”» (35, 4); «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e saranno sturati gli orecchi dei sordi; allora lo zoppo salterà come un cervo e la lingua del muto canterà di gioia» (35, 5-6); «Lo spirito del Signore, di Dio, è su di me (…), il Signore mi ha unto per recare una buona notizia agli umili; mi ha inviato per fasciare quelli che hanno il cuore spezzato, per proclamare la libertà a quelli che sono schiavi, l’apertura del carcere ai prigionieri» (61, 1). Non gli risponde: “Sì il messia sono io”, ma lo rimanda ai fatti, le azioni che si riferivano alla venuta di Dio e del suo messia e che, grazie a lui, accadono. «Andate a riferire a Giovanni quello che udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista e gli zoppi camminano; i lebbrosi sono purificati e i sordi odono; i morti risuscitano» (Matteo 11, 4-5).
E quando dice che «il vangelo è annunciato ai poveri» (11, 5) parla proprio a Giovanni che dal suo carcere e con la morte imminente non ha nient’altro che Dio, nient’altro che quella risposte che attende, che è la sua forza e la sua salvezza. A Giovanni e a tutte le persone che non hanno alcun’altra risorsa se non la bontà di Dio, nessuno forza, nessuno certezza, nessuno su cui contare. Quelli che l’apostolo Paolo chiama “quelli che non sono”, i deboli e gli ignobili, che il Signore ha chiamato. «Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, ossia giustizia, santificazione e redenzione» (I Corinzi 1, 30). L’apostolo parla della croce di Cristo come della pazzia di Dio che ha scelto le cose pazze e le cose deboli per vincere le forti. E quindi: «Beato colui che non si sarà scandalizzato di me!» (Matteo 11, 2-6). Beato, chi non perderà la fede a causa di Gesù. Un messia dell’evidenza, del successo, avrebbe lanciato un anatema: “Maledetto chi si scandalizzerà e non crederà”! Qui invece Gesù sa che chiede una follia: ma appunto: “beato, felice, pieno di grazia, chi in lui scorge Dio e la Sua salvezza“.
Che cosa vuol dire questa beatitudine? È una nuova chiave di lettura della realtà e della vita.
Vuol dire che il Battista riceve la speranza che aspettava e che la sua vita ha un senso anche se muore. Vuol dire che con Gesù, prigioniere e prigionieri come siamo del vecchio, possiamo dimorare in Cristo e trovare spazio a un agire sensate e persino gioioso anche nella prova. Vuol dire che il mondo, nonostante tutto, non è abbandonato a se stesso, che Dio lo trasforma e per questo, solo per questo c’è spazio per vivere, sperare e attendere ancora. Sembra assurdo. Eppure, dice Gesù, beato chi lo fa. Beato, felice, chi accetta la sfida e cerca qui, proprio nella follia di Gesù, la sapienza di Dio. Non ne dobbiamo aspettare un altro, ma il Signore che annunziamo oggi, nel Natale, riguarda la nostra vita intera e non la lascia più.