Crisi climatica, una questione che non deve impegnare solo i giovani
Qualche riflessione dopo la Cop28 insieme a Irene Abra, attivista metodista, che ha seguito l’incontro da remoto
Si è chiusa da pochi giorni negli Emirati Arabi Uniti la 28ma Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop28), tenutasi dal 30 novembre al 13 dicembre, con uno sforamento di un giorno, legato alla complessità dell’approvazione del documento finale, il cosiddetto “Global Stocktake” (bilancio globale).
Ne parliamo con Irene Abra della chiesa metodista di Novara, attivista ambientale, componente della commissione Globalizzazione e Ambiente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, referente per il nostro Paese della campagna ecumenica giovanile Climate Yes, nata nel contesto della Cop26 del 2021 a Glasgow e della campagna metodista mondiale Climate Justice for All (Cj4a) a cui la stessa Irene aveva partecipato.
Della Cop28 Abra ha seguito online i negoziati sull’articolo 6 dell’Accordo di Parigi (mercato del carbonio e relativi crediti), sulla finanza climatica, sul “Global Stocktake”, e il “Padiglione delle Fedi”. Quest’ultimo è una novità di questa Conferenza (un’altra è stato l’inserimento della salute, tema che sarà sempre più centrale nei prossimi anni): uno spazio ad hoc per organizzazioni e movimenti, inaugurato alla presenza di un centinaio di rappresentanti delle religioni mondiali.
– Un segno di riconoscimento per il ruolo delle comunità di fede, è così?
«Il fatto di aggiungere la dimensione religiosa e spirituale all’interno di una Cop è molto importante. Ricordiamo che il 6-7 novembre , circa 200 leader religiosi si erano incontrati [sul tema “Confluenza delle coscienze: unire i leader religiosi per la rinascita planetaria”, nda], firmando una dichiarazione interreligiosa per la Cop28 dal forte valore simbolico: dimostra da un lato il dialogo che si è instaurato, dall’altro il ruolo di advocacy e azione climatica delle realtà di fede. Nel Faith Pavilion, Climate Yes, in collaborazione con Tearfund, ha organizzato un evento sul ruolo dei giovani nel processo di adattamento: è stato un dialogo intergenerazionale, in cui i diversi oratori hanno espresso non soltanto le preoccupazioni, ma anche idee e possibili soluzioni».
Un’altra parte importante, ricorda Irene, è stata la People’s Cop, dedicata alla società civile: «La cosa interessante è che era uno spazio collocato tra i luoghi in cui si tenevano i negoziati, dando modo di esprimere, anche con grande fervore, disagi e delusioni rispetto agli accordi non rispettati.
C’era quindi da un lato l’alta formalità dei negoziatori, dall’altro il livello delle persone comuni, è stato interessante vedere concesso dello spazio anche al secondo».
– Immagino che da questo secondo livello siano emerse le testimonianze dei popoli più colpiti dal cambiamento climatico, per esempio nel Pacifico o in Africa: queste urgenze sono state ascoltate?
«In questa come nelle precedenti Cop, le popolazioni del Pacifico e diverse popolazioni indigene di altre parti del mondo si sono fatte sentire attraverso dichiarazioni, flash mob, proteste. In questo caso hanno parlato anche con la loro assenza: al momento dei negoziati l’Aosis (Alliance of Small Island States), l’alleanza dei piccoli Stati insulari del Pacifico, non era presente, e ciò ha fatto discutere, perché sia a livello di advocacy sia di urgenza sono tra i più coinvolti.
Sul fatto che le istanze di queste popolazioni siano state ascoltate, c’è qualche dubbio: molti Stati e organizzazioni non sono d’accordo su diversi punti del Global Stocktake, ritengono che si dovessero fare più passi in avanti. Da questo punto di vista c’è quindi un po’ di delusione».
– Parliamo del fondo “Perdite e Danni” (Loss and Damage), riconosciuto dalla Cop27: a che punto siamo?
«Il tema della finanza climatica è sempre un tasto dolente perché non si riescono mai a raggiungere gli obiettivi fissati dalle Cop precedenti: qualche passo avanti è stato fatto, lo stanziamento per il fondo “Perdite e Danni” è stato di 792 milioni di dollari (lo stanziamento generale è di 85 miliardi di dollari all’anno, anche se la promessa era di averne 100), ma non sono sufficienti, perché già adesso ci sono molti danni e in più bisogna investire nei progetti di mitigazione e adattamento. Invece, continuano a essere investiti molti più soldi nelle spese militari, piuttosto che su questo tema che è una minaccia alla nostra stessa esistenza. Il problema è adesso, non nel 2050…».
– All’ultimo momento è stato inserito il riferimento ai combustibili fossili, ma smorzandolo da “phase out” a “transitioning away”: non proprio una svolta epocale…
«Teniamo conto che questa Cop si è tenuta negli Emirati Arabi, uno dei paesi che fondano la loro economia sul petrolio, ed è stata una delle Cop maggiormente partecipate dai lobbisti del petrolio: questo ha sicuramente influito sul documento finale, che, lo ricordiamo, ha avuto ben 5 versioni.
C’è chi dice che tra phase out e transitioning away il concetto non cambia, a mio parere il secondo è più debole, dà l’idea di un passaggio soft, non un’uscita drastica dai combustibili fossili, ma un “vediamo, con i nostri tempi, cosa riusciamo a fare”. Tra l’altro, il Global Stocktake non è un documento vincolante e l’obiettivo per l’inizio della transizione (oltretutto parlando di “combustibili fossili inefficienti”) è fissato al 2050, una data molto lontana… Bisogna dire però che è la prima volta che si parla di combustibili fossili in un testo ufficiale, quindi si apre uno spiraglio di speranza, è comunque un passo importante, anche se meno pressante di quanto avrebbe dovuto.
Non vedo questa Cop come un fallimento: considerando il paese in cui si è tenuto, è un passo in avanti e sono fiduciosa nelle prossime Cop».
– Quali sono i vostri programmi come Glam e come Climate Yes?
«Ci incontreremo per discutere come implementare determinate strategie nelle nostre chiese, anche in termini di sensibilizzazione, perché ci sono ancora troppe cose date per scontate, ignoranza su questi temi e fake news… Agendo nel quadro di organizzazioni internazionali, porteremo il nostro punto di vista, facendo un lavoro di riflessione e advocacy, anche per una partecipazione più attiva e intergenerazionale alle prossime Cop, per non lasciare solo a noi giovani questa responsabilità!».