Monfalcone, dove ai musulmani è vietato pregare
Le decisioni della sindaca del Comune friulano hanno portato alla chiusura di due centri islamici e la diffida a riunirsi in un parcheggio per pregare
In questi giorni le pagine dei quotidiani, cartacei e online, hanno dato rilievo a quanto sta accadendo a Monfalcone dove la sindaca leghista Anna Maria Cisint ha promosso ordinanze – la chiusura di due centri culturali islamici, la diffida a riunirsi nel parcheggio di un supermercato in disuso – che di fatto negano la possibilità ai credenti musulmani di riunirsi per pregare.
La sindaca Cisint non è nuova a questo tipo di azioni. Giunta al suo secondo mandato, vinto al primo turno con circa il 70% di voti lo scorso anno, Cisint amministra un Comune di poco meno di 30.000 abitanti, il 30% circa dei quali è di origine straniera. A suon di ordinanze e non solo, la sindaca aveva esordito alcuni anni fa interrompendo gli abbonamenti al Manifesto e Avvenire presso la biblioteca comunale.
La giornalista Fabiana Martini, portavoce di Articolo 21 Friuli Venezia Giulia, ha raccontato all’agenzia NEV che Cisint ha chiesto ad altri sindaci di seguire il suo esempio. «Siamo di fronte alla solita retorica di destra, che rischia di dimenticare l’universalità dei diritti. Peraltro, se non ci fosse la forza lavoro straniera, molte attività industriali nel comparto di Monfalcone chiuderebbero domattina» ha detto Martini. Monfalcone è nota infatti come «città operaia, storicamente chiamata addirittura la Stalingrado del nord-est».
In un comune dove non ci sono episodi di integralismo, l’ombra di una «potenziale violenza istituzionale rischia di favorire la radicalizzazione». Alcune delle ordinanze fanno riferimento a questioni riguardanti gli aspetti urbanistici e di sicurezza. Resta da capire, tuttavia, come mai non si cerchi una soluzione politica. «La sindaca Cisint, in 7 anni, è stata invitata 14 volte a incontrare la comunità musulmana, e altrettante volte non è giunta risposta» ha affermato ancora la giornalista Martini.
Come ha ricordato la consulente legale della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), l’avvocata Ilaria Valenzi, in Commissione ambiente della Camera dei deputati (Audizione di martedì 10 ottobre): «L’esercizio pubblico del culto è un diritto tutelato dall’art. 19 della Costituzione nell’ambito del principio di libertà religiosa, che si sostanzia nell’apertura di templi e luoghi di culto comunque denominati». Diritto spesso disatteso e dimenticato.
Sul caso Monfalcone, diverse comunità religiose hanno espresso la loro solidarietà. Sabato 23 dicembre, l’imam Abdel Majid Kinani ha invitato i rappresentanti spirituali dei centri islamici italiani a riunirsi proprio a Monfalcone per una manifestazione pacifica.
Sulla questione è intervenuto lo scorso 3 dicembre anche Paolo Naso, coordinatore della Commissione studi, dialogo e integrazione della Fcei, nella rubrica “Essere chiesa insieme” andata in onda nella trasmissione radiofonica Culto evangelico. Riportiamo qui sotto il testo del suo intervento.
Vietato pregare.
È quello che afferma un’ordinanza del comune di Monfalcone, indirizzata ai responsabili di un centro culturale islamico che utilizzavano per la preghiera un luogo di culto destinato a più generiche attività culturali. In altre parole, nella loro sede, i frequentatori del centro islamico potranno continuare a incontrarsi, a discutere e promuovere attività culturali, ma non potranno pregare. Vietato pregare, appunto.
È prevedibile che l’ordinanza del sindaco della cittadina friulana sarà impugnata e si risolverà soltanto nelle aule giudiziarie. Non è la prima volta che accade.
È del 2005 una legge della Regione Lombardia sul governo del territorio che introduceva misure fortemente limitative del diritto a esprimere il proprio culto religioso in pubblico e in privato, come recita l’art.19 della Carta costituzionale. Quel provvedimento arrivava a impedire il cambio di destinazione d’uso per luoghi destinati al culto. O chiese, moschee, semplici sale di preghiera nascevano come tali, oppure mai un negozio o un cinema avrebbero potuto essere utilizzati per svolgere cerimonie religiose.
Qualcuno definì quel provvedimento come “legge anti-moschee” ma in realtà la norma fu applicata anche nei confronti di luoghi di culto di altre comunità religiose, a iniziare da quelle evangeliche. La Corte Costituzionale è poi intervenuta per limitare gli effetti di questa norma, che per altro fu successivamente adottata anche da altre regioni.
Chiudere luoghi di culto significa limitare la libertà religiosa e comprimere diritti fondamentali. Significa anche umiliare comunità, spesso composte da immigrati, che si organizzano, si danno una struttura e aprono un luogo di culto: tra mille ostacoli burocratici e, quel che è peggio, in un clima di pregiudizio, se non di ostilità, nei confronti di credenti che appartengono a tradizioni religiose diverse da quella maggioritaria in Italia.
Arriviamo così al paradosso per cui un luogo utilizzabile per realizzare attività associative non è ritenuto idoneo a pregare. È un problema di nicchia – alcuni dicono – sentito solo da piccoli gruppi di minoranza, una questione secondaria rispetto alle grandi urgenze del Paese. Non è così. La qualità di una democrazia si misura anche nella tutela dei diritti delle minoranze e, tra questi, è di primaria importanza quello alla libertà religiosa.
Da sempre le chiese evangeliche, che in passato hanno sofferto persecuzioni e gravi limitazioni alla propria libertà, rivendicano questi diritti. Non solo per sé stesse ma per tutti. La libertà religiosa garantita da uno stato laico e democratico non può essere un privilegio selettivo riservato ad alcune confessioni, ma deve essere un principio che si applica a tutte le comunità di fede.
A complicare le cose, nei giorni scorsi i responsabili del centro islamico di Monfalcone si sono visti recapitare un plico con alcune pagine del Corano bruciate in segno di sfregio: un grave segno di inciviltà, espressione di un odio islamofobico che alimenta pregiudizio e discriminazioni.
Non sappiamo che cosa l’opinione pubblica pensi di questi episodi di intolleranza. La speranza è che la coscienza dei diritti e delle libertà fondamentali sia più matura di quella di certe decisioni amministrative e delle culture politiche che le suggeriscono.